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Periferie esistenziali nella Copenaghen di fine millennio: Radiator (1997) di Jan Sonnergaard

Davide FINCO


Riassunto

Il concetto di periferia può riferirsi a una o più zone di una città, ma può anche avere una valenza non strettamente geografica, bensì sociale, psicologica, esistenziale, nutrita da un profondo disagio e da un odio verso le classi considerate privilegiate tale da portare al cinismo e al nichilismo. I protagonisti dei dieci racconti riuniti in Radiator, esordio letterario di Jan Sonnergaard (1963-2016), esprimono diverse sfumature di questa condizione comune: giovani, ventenni o trentenni, raccontano dei loro incontri nella capitale, degli approcci sentimentali e sessuali, degli scherzi anche feroci giocati ai più vulnerabili, fino a una serie di furti in parte pianificati in parte frutto dell’ebbrezza del momento. Le loro azioni sono scandite da un linguaggio scarno, spesso brutale, ma a volte sono accompagnate da monologhi e sfoghi contro le istituzioni che dovrebbero garantire a tutti dignità e opportunità e invece perpetuano ingiustizie, svelando l’aspetto oscuro dello stato sociale danese contemporaneo. Il lettore si trova di fronte a diversi paradossi, primo fra tutti il fatto che i protagonisti non paiono essere essenzialmente degli emarginati, anzi, hanno le risorse per condurre una vita accettabile, e tuttavia lo sono sostanzialmente, in un sistema marginalizzante al quale si ribellano quando non sono costretti a rassegnarsi.
Il contributo si propone di analizzare la costruzione del concetto di periferia, con particolare riguardo alle immagini della città, ricorrenti in alcuni racconti, e al loro ruolo nella drammatizzazione e nella visione del mondo dei personaggi. Nell’analisi si cercherà anche di collocare l’opera di Sonnergaard non solo nel contesto della letteratura postmoderna e minimalista, ma anche in una prospettiva diacronica, considerando alcune delle principali rappresentazioni di Copenaghen nella letteratura danese dell’ultimo secolo.

Abstract

The concept of periphery may refer to one or more areas of a city, but it can also have a not strictly geographical, rather a social, psychological, existential connotation, developed from deep unease and hatred for the privileged classes, something which eventually may lead to cynicism and nihilism. The protagonists of the ten stories gathered in Radiator, literary debut of Jan Sonnergaard (1963-2016), express different nuances of this common condition: young, in their twenties or thirties, they tell about their meetings in the capital, their sentimental and sexual approaches, their sometimes hard jokes played to the most vulnerable, until a series of thefts which are partly planned, partly due to the rapture of the moment. Their actions are marked by a bare, often brutal language, but sometimes they are accompanied by monologues and outbursts against the institutions that should guarantee dignity and opportunity for everyone, while they actually perpetuate injustice, in this way revealing the dark side of the contemporary Danish welfare state. The reader encounters several paradoxes, first of all the fact that the protagonists do not appear to be essentially marginalized: indeed, they have the resources to lead an acceptable life, and, yet, they are substantially excluded, as they feel in a marginalizing system they rebel against when they are not forced to resign.
This contribution attempts to analyse the construction of the concept of periphery, with particular emphasis on urban descriptions, recurring in some stories, and on their role in the action and in the characters’ world view. The analysis will also try to contextualise Radiator not only inside postmodern literature, but also from a diachronic perspective, taking account of some of the main representations of Copenhagen in Danish literature since the late 19th century.

Capitale di un impero per oltre quattro secoli,1 prima metropoli nordica in senso moderno e attualmente il secondo centro urbano della Scandinavia (dopo Stoccolma), Copenaghen risulta uno dei luoghi fondamentali per studiare l’impatto della vita urbana nel Nord e la letteratura che l’ha rappresentata; ancor più se si considerano due aspetti ulteriori: il rapporto ‘asimmetrico’ dell’estesa e affollata capitale danese rispetto al resto del Paese – che la rende in questo senso simile a Londra – e la posizione della Danimarca quale nazione tra la Scandinavia geografica (Svezia e Norvegia) e il continente, che nei secoli ha determinato il carattere più ‘europeo’, celebrato o deprecato, di questo Paese nel contesto nordico.2

Il nucleo urbano di Copenaghen si espanse e venne fortificato nel corso del XIII secolo e la città si distinse da subito come luogo di difesa e di commercio (come esprime il suo nome, København, derivante da Køpmannæhafn, “porto dei mercanti”), divenendo all’inizio del XV secolo sede della monarchia. La futura capitale poté godere di favorevoli condizioni orografiche, che permisero una maggiore libertà di espansione e un più profondo rimodellamento del paesaggio; d’altra parte, la posizione della città la rendeva più esposta agli attacchi e il suo sviluppo urbano fu pertanto caratterizzato da una certa lentezza (KVORNING 2002: 116). Il contributo più significativo alla crescita (e alla ristrutturazione) della capitale danese venne da re Cristiano IV (1577-1648), che, peraltro, fece costruire nel 1617 il nuovo distretto di Christianshavn oltre la città medievale, inaugurando una generale trasformazione del profilo urbano che in seguito avrebbe reso la città un modello in Europa. Se dal secondo Seicento la capitale danese si prestò a sperimentazioni urbanistiche e a un confronto con altre grandi città europee, solo dagli anni Cinquanta del XIX secolo assistiamo al suo dirompente sviluppo urbano (che a Stoccolma si verificò qualche decennio dopo), a fronte dell’aumento demografico dovuto anche all’immigrazione interna, con il progressivo smantellamento delle mura medievali e la realizzazione di ben tre nuovi quartieri: Nørrebro, Østerbro e Vesterbro.3

Non a caso la rappresentazione della città diventa da questo periodo in poi soggetto frequente e problematico nella letteratura danese: se Hans Christian Andersen (1805-1875) dagli anni Venti vi aveva visto la realizzazione della modernità, esprimendo il suo entusiasmo per le innovazioni tecnologiche, mentre Søren Kierkegaard (1813-1855) negli anni Quaranta vi osservava lo smarrimento delle masse e il generale anonimato che condiziona le relazioni sociali,4 Herman Bang (1857-1912), nel suo Stuk (“Stucco”, 1887), rende la metropoli in tutta la sua materialità protagonista di un romanzo, fotografando in maniera impietosa la frenesia legata alla sua espansione e le frustrazioni conseguenti.5 Per Henrik Pontoppidan (1857-1943) la modernità diventa un “Regno dei morti”, questo il titolo della tetralogia (De Dødes Rige) pubblicata tra il 1912 e il 1915, nella quale Copenaghen non è l’unico luogo dell’azione, ma il centro della cultura urbana diffusa nel mondo, opposta alla cultura rurale che sola può preservare gli autentici valori umani, in qualche modo percepibili solo nella città antica e non certo nei nuovi luoghi della vita sociale.6 Tra il secondo e il terzo decennio del Novecento gli esempi migliori di letteratura urbana si intrecciano in Danimarca con le avanguardie, dall’esaltazione futurista venata di toni neoromantici di affetto per la propria città da parte di Emil Bønnelycke (1893-1953), con la ricerca di un nuovo linguaggio poetico finalmente adeguato ai tempi moderni, in cui, per esempio, le infrastrutture e i mezzi di trasporto divengono letteralmente protagonisti (Asfaltens Sange, “Canti dell’asfalto”, 1918 e Københavnske Poesier, “Poesie di Copenaghen”, 1927), alla città trasfigurata dall’estetica espressionista in Tom Kristensen (1893-1974), che, abbandonata l’ebbrezza nel ritrarre metropoli extra-europee nelle sue prime liriche (Fribytterdrømme, “Sogni di un filibustiere”, 1920), si pone a indagare il legame complesso, misterioso e morboso tra le crisi dei propri personaggi e la dimensione urbana nella quale essi si muovono (nei romanzi Livets Arabesk, “L’arabesco della vita”, 1921, ma soprattutto Hærværk, “Catastrofe”, 1930).7 Osserviamo che in queste dinamiche le rappresentazioni danesi si inseriscono nella generale tendenza del ventesimo secolo a rendere la città un vero e proprio personaggio con il quale fare i conti, spesso nella forma di uno sfondo silenzioso ma influente cui gli umani danno voce riconoscendo l’impatto degli ambienti urbani sulle loro vite (AUGUSTINE 2002).

In questa prospettiva diacronica, non certo completa ma indicativa, la rappresentazione della città nella letteratura danese di fine Novecento, incontrando le esigenze del Minimalismo, diviene particolarmente problematica e provocatoria: ridotta volentieri a una descrizione asciutta e frammentata di dettagli e azioni oltre i quali i lettori, se non in qualche caso già i personaggi, devono cercare di recuperare un contesto organico, la città perde la propria integrità e capacità protettiva, svelando – almeno ai personaggi più sensibili – i meccanismi cinici che ne governano la quotidianità e la stessa sopravvivenza. La cosiddetta ‘letteratura minimalista’ si afferma in Danimarca negli anni Novanta del secolo scorso e, sebbene essa presenti tendenze differenti e chiaramente identificabili rispetto alle quali l’autore di cui ci occuperemo a sua volta mostra un approccio peculiare, la sua opera può in prima battuta essere collocata a pieno titolo in questa corrente.8

Da un punto di vista sociale, gli anni Ottanta e i primi anni Novanta a Copenaghen furono particolarmente turbolenti, caratterizzati da proteste e scontri anche violenti tra giovani e polizia sul tema degli alloggi popolari, con uno storico aumento della disoccupazione fino al 12% del 1994.9 Lo sviluppo urbano della capitale, che dal secondo dopoguerra agli anni Settanta aveva sostanzialmente visto una generale spinta all’espansione con l’occupazione dei territori circostanti, negli anni Ottanta tornò conseguentemente ad esercitarsi verso il centro e verso una possibile forma ‘classica’ della città (KVORNING: 124), in un processo non privo di contraddizioni, nel quale a un centro geograficamente più unito non corrispondeva una maggiore coesione del tessuto sociale urbano. Le prime opere di Jan Sonnergaard (1963-2016), in cui troviamo allusioni a questi fenomeni, riflettono un generale clima di tensione sociale, espresso e sviluppato in molteplici sfumature (dal sarcasmo alla rabbia al cinismo) e mediante diversi strumenti, dalla battuta fugace al vero e proprio monologo.

Nato a Virum, nell’hinterland di Copenaghen, Sonnergaard si trasferì nella capitale all’età di sedici anni e qui si laureò in letteratura e filosofia, collaborando come cronista ed editorialista per diversi quotidiani (come Weekendavisen e Information) e per riviste di musica contemporanea. Nel 1997 esordì10 con la raccolta di racconti Radiator (Radiator. Dieci storie a Copenaghen, Pendragon 2003), la prima di una trilogia comprendente Sidste søndag i oktober (2000, “L’ultima domenica di ottobre”) e Jeg er stadig bange for Caspar Michael Petersen (2003, “Ho sempre paura di Caspar Michael Petersen”). Nel 2009, accanto ai racconti di Gamle historier 1990-2008 (“Vecchie storie 1990-2008”), uscì il suo primo romanzo, Om atomkrigens betydning for Vilhelm Funks ungdom (“Sul significato della guerra nucleare per la giovinezza di Vilhelm Funk”), seguito da Otte opbyggelige fortællinger om kærlighed og mad og fremmede byer (2013, “Otto racconti edificanti su amore, cibo e città straniere”) e dal suo secondo e ultimo romanzo, Frysende våde vejbaner (2015, “Gelide strade bagnate”). Sonnergaard è anche autore di drammi, tra cui Liv og død på Café Olfert Fischer (2006, “Vita e morte al Café Olfert Fischer”).

Scrittore di successo sin dal debutto (Radiator fu venduto in oltre centomila copie, rendendo l’autore uno dei nomi significativi della letteratura negli anni Novanta), da allora è stato spesso presente nel dibattito pubblico su temi sia sociali sia letterari, esprimendo in più occasioni la sua critica al cinismo della società consumistica e, d’altra parte, le sue riserve sugli ambienti intellettuali e sulle scuole di scrittura creativa.11 La trilogia d’esordio si propone come una rappresentazione del mondo e della società da tre prospettive diverse: i poveri e gli emarginati, la classe media o medio-alta e quella abbiente, rispettivamente. La sua scrittura è stata più volte definita “realismo sociale” (socialrealisme),12 ma l’autore ha preso le distanze da questa connotazione, rilevando gli elementi surreali che accompagnano quelli reali e che a volte costituiscono l’esito delle vicende presentate: questa combinazione di realismo e surrealismo ha portato alcuni recensori all’uso del termine radiatorrealisme.13 Nelle analisi seguenti si cercherà essenzialmente di portare l’attenzione sul modo in cui gli spazi urbani compaiono nei racconti, o almeno in una parte di essi, ragionando poi sul carattere sociale delle descrizioni e dunque sulla posizione dei personaggi.

I dieci racconti proposti in Radiator sono eterogenei, sia per lunghezza sia per trama sia per ritmo narrativo, ma presentano alcuni significativi tratti in comune: oltre all’ambientazione nella capitale (resa peraltro esplicita nel titolo della versione italiana), sulla quale ci soffermeremo, possiamo osservare che tutti i protagonisti sono giovani, ventenni o trentenni, e il loro modo di guardare il mondo e considerare la società delinea una chiara connotazione generazionale, tendenzialmente ostile al resto della collettività; il carattere di questa critica sociale, che a volte emerge a dispetto della dimensione fortemente individuale delle vicende narrate, è senza dubbio uno degli aspetti più inquietanti, provocatori e controversi dell’opera.

Da questa impostazione deriva un terzo elemento ricorrente, che in alcune storie interessa la stessa struttura narrativa: le considerazioni caustiche, gli sfoghi, i veri e propri monologhi (spesso interiori) impietosi, cinici e sarcastici, il cui bersaglio sono il mondo degli adulti, le loro istituzioni (come scuola e università) e i luoghi ‘sacri’ nei quali si esprime la vera natura della società (danese), al di là di ogni retorica, ossia i negozi e i locali lussuosi della capitale, oggetto di desiderio, di invidia, di rabbia oppure di un’attenzione da entomologo nel valutare la ‘fauna’ urbana (e per contro i luoghi malsani riservati ai non abbienti, come i supermercati a basso costo).

Quando l’azione non si concentra da subito in un ambiente domestico, ma coinvolge la città attraversata dai personaggi, possiamo notare un meccanismo comune: Copenaghen si presenta inizialmente come un luogo confortevole, a tratti idillico, scenario ideale per accogliere i sogni e le piacevoli constatazioni dei protagonisti; ben presto, tuttavia, l’armonia viene infranta in modo irrimediabile dall’intervento di qualche personaggio, dalle sue pretese e dalle sue manie, che infine rivelano la mediocrità e il marcio sempre latente nella società.14 Questa struttura compare già nel primo racconto, intitolato William e inaugurato da un dolce incontro fra i protagonisti, nella prospettiva emozionante dell’attesa di un figlio:

E continuavamo a camminare, mano nella mano, a Copenaghen nel bel mezzo della tarda estate, e non c’eravamo che noi, che non dovevamo preoccuparci proprio di niente, e non c’era alcun rischio di incontrare qualcuno dei nostri amici e conoscenti, quella gente divertentissima che ci prende in giro e ci chiama “vecchi”, “sistemati”, o “borghesi” perché ci dedichiamo tanto al nostro rapporto. C’eravamo solo io e Ulla, e c’era solo Copenaghen e questa caldissima tarda estate, e poi forse dentro a Ulla c’era il bambino. (William, p. 10)15

La rappresentazione della città è subito intrecciata al senso di spazio di libertà, nella prospettiva di chi per un po’ è riuscito a sfuggire all’ordine e ai vincoli quotidiani: «Era da lunedì che la nostra vacanza era cominciata, ed era stata sregolata ed egoista quanto si può desiderare» (William, p. 10).16 Nel frenetico movimento fra cinema, teatri, ristoranti e negozi, i due protagonisti si fermano infine al Café Nielsen, dove si svolge la maggior parte del racconto. Qui la loro magistrale complicità è ben presto interrotta dall’avvicinarsi di «un ometto» («en lille mand»), che si siede al loro tavolo e comincia a raccontare una storia cruda di violenze fisiche e psicologiche subite da un tale William e infine, mentre i due, infastiditi, lasciano il locale, in un’atmosfera ormai resa surreale egli rivela di essere il protagonista delle storie che ha narrato, o meglio imposto loro. L’esordio del secondo racconto, Historie om en ung mand… (Il ragazzo nell’armadio)17 propone, con un aggiunta di sarcasmo, la stessa dinamica:

Nel luglio di un paio d'anni fa un giovane se ne andava fischiettando in giro per Copenaghen. Ad essere più precisi stava camminando su per la collina di Valby, rasente il giardino zoologico, dove un okapi era morto per aver sentito troppa musica classica. […] / Poi girò là dove sono i giardini delle villette monofamiliari, in cima alla collina, e c’era un odore di frittura e di vecchio cibo danese, e si sentiva un’orchestra amatoriale che suonava vecchi pezzi dei Gasolin. Era un vero giorno d’estate. Era caldo e umido, c’erano tante persone in strada, perché la maggior parte dei copenaghesi si era messa in ferie. E dalla birreria Carlsberg veniva un odore di luppolo e di metropoli, di erba e di cibo – perché finalmente era estate, non ci poteva essere alcun dubbio. (Il ragazzo nell’armadio, p. 17)18

La storby (la metropoli) diventa qui un odore, inserito nel quadretto tradizionale e volutamente un po’ stucchevole della necessaria armonia estiva, che subito dopo mostra qualche crepa nelle considerazioni sull’abbigliamento del protagonista e sulla sua inesperienza in fatto di marche: «abitava a Copenaghen da non più di un anno. Abbastanza a lungo da racimolare un po’ di conoscenza sugli abiti di marca, ma non abbastanza da saperla utilizzare correttamente» (Il ragazzo nell’armadio, p. 18).19 L’osservazione giunge a chiosa di una divertita descrizione degli abbinamenti scelti dal personaggio e connota la città in senso culturale e sociale, rimarcando l’estraneità del diciannovenne. Ma questa passeggiata sta per condurre il ragazzo dalla sua fidanzata e la sua gioia gli permette di trasfigurare il quartiere in cui si sta muovendo, opponendo in un certo senso la propria (la loro) innocenza alla corruzione continuamente ricordata e raccontata dalla gente e dai media. Una ‘sublimazione urbana’ nella quale, tuttavia, non si perde l’occasione di accennare al conflitto generazionale:

[Lei] abitava proprio nelle vicinanze, non più di cinque minuti di cammino da dove il giovane si trovava ora, in un appartamento che dava su un cortile interno, a Vesterbro, nei dintorni di Enghave. / Ci si stava bene in quel quartiere. Non faceva affatto pensare a tutte quelle storie terrificanti che si sentono in giro, secondo cui Vesterbro sarebbe una sorta di Sodoma e Gomorra. Al contrario. Ci abitava gente molto simpatica, e in seguito all’evoluzione sociale degli ultimi tempi le persone sopra i quarant’anni avevano un lavoro e si guadagnavano da vivere, mentre quelle sotto i trenta campavano col sussidio oppure con l’indennità di disoccupazione. Ma questo non era comunque un buon motivo per non salutarsi gentilmente. (Il ragazzo nell’armadio, p. 18)20

Lavoro e autonomia contro sussidio e indennità di disoccupazione: sono questi alcuni fra i fondamentali elementi connotanti i personaggi della raccolta, in fondo fra i più solidi e duri punti di riferimento ed espressioni d’identità. Non a caso nel racconto interverrà un docente universitario quarantenne come rivale in amore, con tutte le considerazioni pungenti del protagonista (tra sé e sé o attraverso il narratore, poiché i due non si incontreranno mai). In un paio di storie, invece, la metropoli viene condensata in un luogo, osservatorio privilegiato delle dinamiche sociali messe in atto o subite, in un circolo vizioso: in Lotte il pub nel quale lavora il protagonista e voce narrante, che racconta nel dettaglio tutte le sue strategie e i suoi trucchi per affrontare i clienti e trarne il massimo profitto; in NETTO og fakta (Discount) il supermercato, descritto come punto d’arrivo di tutto il cibo più scadente destinato in modo inesorabile ai più poveri. La città si preoccupa dunque di nutrire gli emarginati, ma lo fa in modo che rimangano tali, all’interno del loro corpo, addirittura, quanto lo sono all’esterno,21 in una logica del profitto che alimenta l’esclusione sociale.

Uno degli effetti più pervasivi e destabilizzanti appare il rapporto disturbato che i personaggi hanno nei confronti della comunità e della stessa città. Si è parlato, nella prima storia, delle violenze subite da William e riferite alla coppia, in una sorta di sfogo e velleitaria vendetta nel rovinare la giornata ai due. Indizi di un’intima frattura nell’esperienza umana sono tuttavia presenti prima del suo ingresso sulla scena, nella parte di racconto che più ci interessa essendo legata agli spazi urbani: se infatti ci soffermiamo sul modo in cui la coppia fa esperienza della città, notiamo quanto essa sia definita come un luogo a disposizione del cliente, i cui prodotti sono disponibili alla consumazione e che viene pertanto ‘divorata’ dai due protagonisti in una sorta di carnevale, gestito tuttavia con una profonda dedizione:

Al mattino ci alzavamo quando ci pareva, restavamo a casa quanto ci pareva e poi uscivamo solo quando ci balenava l’idea di un eccesso di qualche tipo, e stavamo bene attenti a dedicarci reciprocamente la massima attenzione e, com’è ovvio, cercavamo anche di spendere il più possibile. Giravamo fra teatri, cinema, ristoranti, mostre e i soldi del mio buono ferie già al mercoledì erano belli che andati, e il grossissimo premio extra dell’ufficio si era ormai quasi dimezzato, perché mangiavamo e bevevamo quello che c’era di più pazzescamente caro e regalavo a Ulla tutto quello che indicava, naturalmente giravamo in taxi. (William, p. 10)22

Questa sfrenata vacanza nel paese dei balocchi – resa possibile da gratificazioni professionali (il premio dell’ufficio) e istituti sociali (il buono ferie) – si pone nel suo parossismo come il preludio ideale alla punizione che, inattesa, sconteranno nel locale, anche se le due parti del racconto volutamente stridono e la loro combinazione mira a creare l’effetto surreale cui si accennava. Tutto si svolge nel centro della capitale, luogo di raccolta o accumulo dei destini e dei sogni dei personaggi, e la caratterizzazione della storia converge verso una totale alienazione (espressa paradossalmente dall’ospite inatteso), nella quale la città – del tutto familiare ai personaggi e pure estranea nei suoi luoghi più lussuosi – viene come assalita dai barbari, con la sostanziale differenza (qui e in altre storie) che essa sembra essere sorta proprio per questo.23

Una prospettiva sostanzialmente simile viene sviluppata ed estremizzata nella terza storia della raccolta, Tyveri (Il grande furto), probabilmente la più nota dell’opera, nella quale l’assalto ai luoghi urbani scivola nel reato e vuole esprimere tutto il disprezzo e la fierezza dei giovani protagonisti. L’atto è addirittura giustificato fin dall’incipit come una necessità quasi biologica:

Come una grandissima fica umida il Super Brugsen di Nørre Voldgade ci si spalancò davanti, e schizzammo subito dentro come dei piccoli spermatozoi in fibrillazione, attraversando l’entrata, il reparto panetteria e il giornalaio. / Eravamo giovani e pieni di energia, e portavamo la scritta “tipo sveglio” dipinta sulla faccia. Adesso, diocane, si doveva rubare. E non semplicemente rubare, ma proprio un saccheggio in grande stile, e se quelli di Super Brugsen credevano di poterci eternamente prendere per il naso con le loro merci esposte sugli scaffali e i loro prezzi belli scritti sui cartellini, be’, era meglio che cambiassero idea, perché oggi i nostri piani dicevano che avremmo rubato ingordamente, oltre ogni limite e vergogna, fino allo spiacevolissimo spodestamento di tutte quelle forze che provavano continuamente a irrompere nella nostra vita, che provavano a controllarci, insomma una vera e propria vendetta su tutti quelli per cui noi non contavamo un cazzo. (Il grande furto, p. 29)24

Il supermercato, luogo per antonomasia della convenienza, diventa agli occhi dei protagonisti il tempio del potere perverso e pervasivo che ossessiona le loro vite e determina la loro rabbia e la loro percezione di una profonda ingiustizia. L’azione punitiva viene descritta con tutta l’ebbrezza quasi alcolica del gesto, mentre al centro commerciale si associa la capacità seduttiva di una prostituta, che fin lì ha fatto bene i suoi conti ma non ha previsto la rivolta dei friskfyr, dei “tipi svegli”. Nel testo il senso dell’azione è ulteriormente evidenziato dai corsivi, per fisse (“fica”), SuperBrugsen, stjæles (“essere derubati”, qui in una costruzione impersonale con il modale skulle che esprime una necessità: “si doveva”, ossia se lo meritano), hævn (“vendetta”) e dal maiuscolo NU (“ORA”). Si insinua in questa introduzione una lettura più sottile e politica: è il supermercato, ormai, il centro in cui si raccolgono le forze vitali della società e da cui esse emanano per invadere le vite degli individui, quotidianamente sedotti e abbandonati (questa la tragedia surreale), ben consapevoli – almeno i protagonisti della vicenda – di non contare nulla per la società e pronti a mostrare tutta la loro vitalità da opporre a quella codificata dei centri commerciali; e questa connotazione permane nonostante la loro rivolta sia rappresentata come fine a se stessa e, nel complesso, rischi di scivolare in un ‘carnevale’ presto assorbito dalla società cui essi si ribellano (GULLESTAD 2003: 149-151). Nørre Voldgade si trova nel centro di Copenaghen (la cosiddetta Indre By, “città interna”), ma, se vogliamo, in un luogo particolare, come indica il suo nome (“Strada settentrionale delle mura”): insieme a Vester Voldgade (l’equivalente occidentale e via contigua), essa segna il confine delle antiche fortificazioni, qui smantellate nel 1867. Da una prospettiva storico-sociale appare quanto mai significativo che, in questo racconto come in tutta la raccolta, la città sia identificata soprattutto da luoghi commerciali, che in effetti diventano i nuovi monumenti e le nuove piazze della capitale. Oltre a essere il testo più lungo, Tyveri è anche quello in cui compaiono più toponimi, la cui caratterizzazione è eloquente sul punto di vista del narratore: se Fjolstræde, Rosengården e Købmagergade costituiscono la via di fuga dei protagonisti dopo il furto, gli altri riferimenti a strade o locali sono sempre connotati socialmente;25 Pustervig, per esempio, viene menzionato per la presenza di un appartamento

che apparteneva ai genitori di una ragazza con cui [uno dei loro amici] era stato, che infatti era una vera e propria ochetta d’alto bordo, occupata a farsi sbattere solo da quelli che secondo lei avevano i soldi. Viziata dalla nascita. Spilorcia come solo il demonio. / Il loro rapporto era durato un mese, e poi lei aveva perduto ogni interesse – aveva cominciato senz’altro a scoparsi un altro, uno sbarbatello di Hellerup, un buffone coi soldi, che offriva sempre lui […] (Il grande furto, p. 32)26

Gli «sbarbatelli di Hellerup» vengono poco dopo descritti come le vittime preferite di certe ragazze: Hellerup, a nord di Copenaghen, sull’Øresund, ha fama di essere uno dei luoghi più ricchi del Paese e si presenta dunque come il toponimo ideale per lo sfogo sui meccanismi cinici dei rapporti sociali nel mondo che i ragazzi hanno conosciuto, ulteriore giustificazione del loro “grande furto”. A Sonnergaard interessa mettere in evidenza che l’azione sia compiuta da giovani danesi e non immigrati («quanto poco servono le tecniche narrative [rispetto ad altri elementi] perché la storia di Tyveri possa avere un altro significato; prendi i nomi Fjæsingfjæset, Søren e Leander… Se solo uno dei nomi fosse Mohammed, la storia tratterebbe tutt’altro: forse darebbe ragione al Danske Folkeparti sul fatto che gli immigrati non fanno che rubare o qualcosa del genere»)27 e questa intenzione giustifica buona parte del suo realismo. La rete di rapporti essenzialmente materialistici ed economici, percepibili non appena si ‘viva’ la città, è del resto rappresentata in maniera diversa ma altrettanto chiara nel già menzionato Il ragazzo nell’armadio, nel momento in cui, giunto il protagonista a casa di lei, la voce narrante tratteggia il loro status:

I due giovani non avevano ancora granché, e ancora non erano niente. Ma questo era solo un vantaggio, perché significava che le banche, e le carte di credito, e le casse di risparmio, e le grandi aziende ancora non si interessavano a loro, e quindi non riuscivano nemmeno a rovinare niente. Non c’era nessuno a cui dovessero qualcosa, e quando non si deve niente a nessuno non c’è bisogno di inventarsi delle tattiche se si ha a che fare con gente potente, oppure semplicemente più altolocata di noi. Se una banca li chiamava era perché aveva una proposta per loro, e non perché loro ne avevano una per la banca. […] Nulla di cui avere paura. Non pensavano nemmeno in termini di “livelli”. Non c’erano ambizioni o aspirazioni di carriera, e quindi nemmeno tattiche o intrighi. Non ancora. C’erano solo loro due. E il loro rapporto (pp. 18-19).28

La realtà degli istituti o delle istituzioni (qui le banche, altrove – in Immatrikuleret 1.9.1982. Spøgelse / Immatricolato 1.9.1982. Fantasma, forse non a caso il racconto conclusivo – la scuola e l’università, luoghi della mancata formazione) vanno a costituire, non appena i protagonisti escono dal ristretto circolo delle proprie avventure o delle proprie perversioni, la ‘vera’ città, quella che li assedia e nella quale essi cercano uno spazio di autonomia o, altrimenti, un’occasione di profitto per dimostrare disperatamente la loro ‘adeguatezza’ a un sistema che non condividono.

Lungi dall’essere il luogo di opportunità per la loro crescita professionale e spirituale, la città, un attimo dopo la percezione di un qualche paesaggio piacevole e a suo modo coerente, viene svuotata di ogni valore storico e culturale, rimanendo solo il posto dove vivono ‘loro’, gli altri, i privilegiati, coloro che condividono il centro del Paese con gli stessi personaggi eppure sembrano rimarcare in ogni gesto, in ogni abitudine, in ogni moda la loro irriducibile superiorità. L’aspetto più rilevante è questa rabbia interiorizzata che consuma i rapporti sociali, questa mancata coesione sociale in una città che, nella storia reale così come, volutamente, nell’azione dei racconti, si concentra nelle vie e nei quartieri del centro e non della periferia, un centro in cui tuttavia i personaggi vivono una marcata segregazione. Se, come detto, nel ventesimo secolo la città diventa un vero e proprio personaggio, nella letteratura post-modernista essa non pare più un simbolo collettivo attraente ma piuttosto una diffusa – e pervasiva – condizione esistenziale (KEUNEN 1999: 359): da questa prospettiva possiamo osservare come nei racconti di Radiator si svolga una sorta di ‘guerra civile’ tra personaggi pienamente urbanizzati, un conflitto nel quale il narratore mostra solo il punto di vista dei ‘diseredati’, esseri coerenti nel manifestare tutta la propria alterità per denunciare le sottili violenze subite nella città contemporanea, ma nello stesso tempo il proprio orgoglio nell’evitare di mischiarsi con i loro ‘avversari’; ciò determina lo svuotamento e la riduzione di molti di questi a tipi, in un processo che prosegue formalmente il lavoro sulla rappresentazione urbana che abbiamo illustrato e che realizza, portandola forse all’estremo, una procedura tipica della letteratura postmodernista come la decostruzione dello spazio (McHALE 1987: 45), qui anche spazio interiore.

D’altra parte, considerando un altro principio di questa letteratura, le storie alludono spesso a una possibile ricostruzione dei legami sociali dall’interno, dal gruppo (ecco un’altra prospettiva ‘periferica’), opponendo le relazioni familiari e amicali come valore positivo rispetto alla natura anonima, disumana e ipertrofica della burocrazia, delle istituzioni, dell’industria, improntati a criteri puramente razionali (SANDERS 1987: 80). Tra rabbia, ironia e sarcasmo, troviamo così un nucleo vitale nella visione del mondo lucida, ma autoreferenziale, paranoica e apparentemente nichilistica dei personaggi, e nello stesso tempo la tendenza ‘tribale’ si rivela come antidoto alla complessità sfuggente e perversa dell’ineludibile mondo urbano.

Bibliografia

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B. KEUNEN, «The Decline of the City as Modernist Symbol: City Images in Postmodern Urban Fiction and in Collective Memory», in D. De Meyer, K. Versluys (eds.), The Urban Condition: Space, Community and Self in the Contemporary Metropolis, Rotterdam, GUST, 1999, p. 359-376.
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K. MICHELSEN, Digter og Storby, København, Fremad, 1974.
J. S. PEDERSEN, «Jan Sonnergaard er tilbage med sæsonens sorteste manderoman», in Politiken (14.10.2015; http://politiken.dk/kultur/boger/skonlitteratur_boger/art5593718/Jan-Sonnergaard-er-tilbage-med-s%C3%A6sonens-sorteste-manderoman).
H. SANDERS, «Postmoderne. Alltäglichkeit als Utopie», in C. Bürger, P. Bürger (eds.), Postmoderne: Alltag, Allegorie und Avantgarde, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1987, p. 72-83.
K. SKOTTE, «Jan Sonnergaard: ‘Jeg ville for en gangs skyld være sød ved læserne’», in Politiken (30.3.2013; http://politiken.dk/kultur/boger/art5708587/Jan-Sonnergaard-%C2%BBJeg-ville-for-en-gangs-skyld-v%C3%A6re-s%C3%B8d-ved-l%C3%A6serne%C2%AB»).





Notes

↑ 1 Nel periodo di massima espansione, ossia tra il Seicento e la metà dell’Ottocento, la monarchia danese regnò su Norvegia (dal 1397 fino al 1814), Islanda (fino al 1944), Fær Øer e Groenlandia (ancora oggi parte della nazione danese), Tranquebar (nell’India sud-orientale, dal 1620 al 1845), Costa D’Oro (nell’attuale territorio del Ghana, dal 1659 al 1850), Indie Occidentali danesi (dal 1672 al 1917), Serampore / Frederiksnagore (nel Bengala, dal 1755 al 1845).

↑ 2 Un’ulteriore peculiarità della Danimarca risiede nella sua densità abitativa, decisamente superiore a ogni altra area della Scandinavia e in linea piuttosto – per evidenti ragioni geografiche e climatiche – con altri Paesi continentali: 129 abitanti per km²; cfr. Svezia 22, Norvegia e Finlandia 16, Islanda 3 (Italia 205, dati ufficiali del 2014). Riguardo al carattere europeo, possiamo osservare in epoca recente come essa sia stata la prima nazione nordica ad aderire alla Comunità europea (nel 1973, ma le prime richieste risalgono al 1961), seguendo in questo le politiche della Gran Bretagna, mentre Svezia e Finlandia sarebbero entrate solo nel 1995.

↑ 3 Sull’impetuoso sviluppo dal 1850 al 1910, periodo in cui la popolazione di Copenaghen triplicò, vedi i dati e le considerazioni di MICHELSEN (1974: 7-13).

↑ 4 Si può in effetti considerare Il diario di un seduttore (1843), celebre esposizione dell’atteggiamento estetico, anche come un romanzo urbano, nel quale il protagonista, prototipo del flâneur, incarna una modalità dell’esperienza della città. Vedi a tal proposito MADSEN 2002: 296. «The imagined insight into the mind of others at a distance is a distinctly urban attitude. It is played out in a variety of concrete situations in Johannes’ diary.» (MADSEN: 298)

↑ 5 L’importanza della materia è evidente sin dal titolo, metafora dei trucchi necessari alla convivenza moderna, e si concentra nel progetto di edificazione di un teatro, ma per ‘materialità’ dobbiamo qui intendere soprattutto la rete dei rapporti istituzionali che condizionano e scandiscono le vite dei singoli. Vedi anche MADSEN: 301.

↑ 6 La riflessione di Pontoppidan investe anche la condizione della comunicazione pubblica: «The press is the most obvious representative of urbanity […]. Modernity, metropolis, and press are one and the same. The press has not escaped destructive American impulses […]. Politicians no longer address listeners, but rather a public […] a mass phenomenon that is prone to follow trends and moods.» (MADSEN: 304)

↑ 7 In tema di rappresentazione della metropoli, ricordiamo anche la versione surrealista di Jens August Schade (1903-1978) nella raccolta di versi satirici Sjov i Danmark (“Sjov in Danimarca”, 1928), la cui terza parte, I storbyen appunto, rende tra il giocoso e il tragico tutta l’alienazione urbana di cui è vittima il protagonista, innocente anima campagnola.

↑ 8 Manifestatosi negli anni Sessanta nelle arti figurative, il Minimalismo ebbe subito poche ma significative ricadute nella letteratura danese (Hans-Jørgen Nielsen, Charlotte Strandgaard), per poi radicarsi a fine secolo. Nelle opere in prosa possiamo distinguere due tendenze principali: una astratta, filosofica e simbolica (Solvej Balle, Christina Hesselholdt) e una concreta e realistica (Helle Helle, Katrine Marie Guldager, Simon Fruelund). Quest’ultima, cui Sonnergaard è senz’altro più vicino, mostra influssi da Raymond Carver e paralleli con l’opera del norvegese Kjell Askildsen e dello svedese Stieg Larsson, divenuto poi noto per la trilogia Millennium. Vedi HANDESTEN 2007: 579-580.

↑ 9 Dal 1982 al 1993 la Danimarca, dopo decenni di governi socialdemocratici, fu guidata dal conservatore Poul Schülter, percepito come capitalista e nemico delle classi meno abbienti. Gli scontri per gli alloggi (bolig-krige) diedero vita alla nascita di gruppi giovanili, i cosiddetti “BZ-gruppe” o “BZ’erne”, da besætte, ossia “occupare”. A loro si fa riferimento in un racconto di Radiator. Nel senso comune si è diffusa l’espressione “Fattig-80-erne” (“Poveri anni Ottanta”). Ringrazio Jens Sloth per le preziose indicazioni al riguardo.

↑ 10 Il suo debutto letterario risale in effetti al 1990, con il racconto Imitation af Lacoste contenuto nell’antologia Begyndelser (“Inizi”), ma Radiator è il suo primo volume.

↑ 11 Sonnergaard ne frequentò una per due anni e il titolo dell’ultimo racconto (che dà il nome alla raccolta) nasce da un aneddoto al riguardo: Niels Frank, poeta e insegnante in quella scuola, aveva una volta spiegato agli allievi come non si potesse scrivere una poesia contenente la parola radiator (“termosifone”).

↑ 12 Vedi per es. SKOTTE 2013, il quale tuttavia rileva il parossismo di questo realismo sociale: «den beskrivelse af livet op ad ’radiatoren’, som Jan Sonnergaard gjorde berømt, da han i sin tid chokerede den danske litterære offentlighed ved at genoplive socialrealismen i sin mest kradsbørstige form på et tidspunkt, hvor den slags var alt andet end comme il faut.»(«la descrizione della vita di Radiator, che Sonnergaard rese popolare quando a quel tempo scioccò gli ambienti letterari recuperando il realismo sociale nella sua forma più graffiante in un momento in cui quel genere era tutt’altro che accettato.»)

↑ 13 Cfr. ANDERSEN – HANSEN. Un esempio evidente di questa vena surreale nella struttura narrativa è il racconto Lotte, o meglio la sua conclusione, nella quale la morte per omicidio della donna, dopo una lunga, vivace e serrata descrizione realistica delle dinamiche sociali all’interno di un bar, viene fatta risalire dai legali ad alcuni giorni prima della sua irruzione nella vita del protagonista.

↑ 14 Nella scrittura di Sonnergaard questa commistione risulta caratteristica dell’esperienza metropolitana e contraddittoria persino nella sua percezione: «Jan Sonnergaard har altid haft sans for den særlige storbyfølelse, som består af lige dele eufori og smerte. Som hovedpersonen Jesper selv siger i ’Frysende våde vejbaner’: ’Der er jo altid en eller anden form for skønhed gemt i det forfærdelige’» («J. S. ha sempre avuto il senso del particolare sentimento urbano, costituito in parti uguali di euforia e dolore. Come lo stesso Jesper, protagonista di Gelide strade bagnate, afferma: ‘C’è sempre una qualche forma di bellezza nascosta in ciò che ci sconvolge» PEDERSEN 2015).

↑ 15 La versione italiana, da cui sono tratte tutte le citazioni in questo contributo, è di Paolo Borioni (2003). Si è scelto di identificarle con il titolo italiano del racconto e il numero di pagina, riportando in nota il testo danese: «Og vi gik videre, med hinanden i hånden, i København, midt i sensommeren, og der var kun os, og vi behøvede ikke bekymre os om noget som helst, og der var ingen risiko for at møde nogen af vores morsomme venner og bekendte, der altid gør nar og kalder os ”gamle” eller ”satte” eller ”borgerlige”, fordi vi gør så meget ud af forholdet. Der var kun Ulla og mig, der var kun København og denne meget varme sensommer, og så var der måske barnet inde i Ulla.» (William, pp. 10-11)

↑ 16 «Vores ferie havde varet siden mandag, og den havde været lige så uregelmæssig og egoistisk, som man kan ønske sig». (William, p. 11)

↑ 17 Il titolo originale, oltre a formalizzare tutto il disagio nel rapporto con gli altri gruppi sociali (in questo caso l’intruso è un docente universitario che corteggia la ragazza con cui il giovane sta avendo una storia), mostra forse l’intenzione di Sonnergaard di scherzare con gli stilemi del realismo o del minimalismo: Historie om en ung mand, der tvinges ind i et klædeskab, fordi et ubehageligt væsen bryder ind i hans kærlighedsliv på de mest umulige og ubelejlige tidspunkter (“Storia di un giovane costretto a rifugiarsi in un armadio perché un essere sgradevole irrompe nella sua vita sentimentale nei momenti più spiacevoli e inopportuni”).

↑ 18 «I juli måned for et par år siden gik en ung mand fløjtende rundt i København. / Nærmere bestemt gik han op ad Valby Bakke og forbi Zoologisk Have, hvor en okapi var død, fordi den havde hørt for meget klassisk musik. [...] / Så drejede han af ud for de gamle familiehaver for enden af bakken, og der lugtede af friture og dansk frokostmad, og man kunne høre et amatørorkester, der spillede kopier af gamle Gasolinnumre. Det var en rigtig sommerdag. Der var varmt og lummert, der var mange mennesker ude, for de fleste københavnere havde ferie nu. Og der lugtede af humle fra Carlsbergs bryggeri, og af storby, græs og mad – for det var endelig blevet sommer, det kunne der ikke være nogen tvivl om.» (Historie om en ung mand..., pp. 21-22)

↑ 19 «[...] han havde ikke boet i København længere end et år. Længe nok til at opsamle lidt viden om mærkevarer, men ikke længe nok til at benytte dem korrekt». Historie om en ung mand..., p. 22)

↑ 20 «Hun boede lige i nærheden, ikke meget mere end fem minutters gang fra der, hvor den unge mand var nu, i en baggårdslejlighed på Vesterbro, i Enghavekvarteret. / Det var et rart kvarter. Det mindede slet ikke om alle de drabelige historier, man hører om, at Vesterbro er en slags syndens Sodoma og Gomorra. Tværtimod. Her boede flinke mennesker, og som følge af samfundsudviklingen de sidste mange år havde de, der var over fyrre, arbejde og tjente selv til livets ophold, mens de, der var under tredive, som regel var på bistandshjælp eller dagpenge. Men man hilste lige pænt på hinanden af den grund.» (Historie om en ung mand..., p. 23)

↑ 21 Il (mancato) rispetto del corpo è un tema che emerge anche in Sex (Sesso), nel quale il protagonista consuma, un po’ per dovere un po’ per piacere, l’avventura di una notte con una ragazza appena conosciuta, intuendone la solitudine, ma non volendo lasciarsi coinvolgere in una storia con una persona così diversa e pericolosa nella sua decadenza.

↑ 22 «Vi stod op, når det passede os, vi blev derhjemme så længe vi ville og gik først vores vej, når vi fik en vild idé om en eller anden exces, og vi sørgede for hele tiden at være opmærksomme over for hinanden, og som en selvfølge at bruge så mange penge som det var os muligt. Vi vekslede mellem teater, biograf, restauranter og udstillinger, og mine feriepenge var allerede formøblet onsdag, og min meget store bonus fra bureauet var næsten halveret nu, for vi spiste og drak vanvittig dyrt, og jeg forærede Ulla alt hvad hun pegede på, og vi lod os naturligvis transportere frem og tilbage i taxa.» (William, p. 11)

↑ 23 Quest’attitudine viene sviluppata ed esasperata nel racconto Polterabend (Addio al celibato), nel quale la città fa da sfondo agli eccessi dei protagonisti fino al sorprendente finale tragico e surreale.

↑ 24 «Som en stor, slimet fisse åbnede SuperBrugsen alt op på vid gab for os, og som små, ivrige sædceller sprøjtede vi ind, ind gennem hallen, bageriet og lige op i kiosken i afdelingen på Nørre Voldgade. / Vi var unge og energiske og fulde af dynamik, og der stod malet friskfyr i ansigtet på os. NU skulle der kraftedeme stjæles! Og der skulle ikke alene bare stjæles, der skulle storstjæles, for det var kalkuleret dét her, og hvis SuperBrugsen troede, de for tid og evighed kunne slippe af sted med at gøre nar af os med alle deres varer og prisskilte og udstillinger, så kunne de tro om igen, for i dag havde vi planlagt, at der skulle stjæles, og dét så ud over alle grænser skamløst og grisk, at det blev en meget ubehagelig uddrivelse af de magter, der hele tiden forsøgte at trænge ind i vores liv og kontrollere os, og en virkelig effektiv hævn over alle dem, der ikke regnede os for en skid.» (Tyveri, p. 39)

↑ 25 «[…] esordì, così affascinante e civettuola che persino il più indurito uomo d’affari uscito da Privé o da qualche altro posto alla moda come Annabels se ne sarebbe istantaneamente invaghito.» (p. 33); «Erano usciti per fare i piacioni. Spendere soldi e sentirsi importanti. / Di fronte a un costoso ristorante di Store Kongesgade c’era un esemplare femminile di questa specie. Non tanto più grande di noi, ma molto, molto meglio vestita.» (p. 41); «E dopo entrammo al Café Nielsen a dare un’occhiata a quell’ambiente di uomini d’affari educati e per bene» (p. 42, corsivi nel testo).

↑ 26 “som tilhørte forældrene til en pige, han engang havde kommet sammen med, for hun var en rigtig lille overklassegås, som kun kneppede med mænd, hun troede havde penge. Født med en guldske i munden. Nærig som bare satan. / Deres forhold havde varet en måned, og så havde hun helt tabt interessen – hun begyndte uden videre at bolle med en anden, en fløs ude fra Hellerup, en rig nar, som også fik lov til at betale hele tiden [...]” (Tyveri, p. 44)

↑ 27 «hvor lidt der fortælleteknisk skulle til, for at historien (”Tyveri”) får en helt anden mening, fx navnene Fjæsingfjæset, Søren og Leander... Hvis nu bare et af navnene var Muhammed, så ville den historie handle om noget helt andet: Så ville det være sådan noget som gav Dansk Folkeparti ret i, at indvandrerne bare stjæler eller sådan noget lignende.» (ANDERSEN – HANSEN)

↑ 28 «De to unge mennesker havde ikke så meget, og de var endnu ikke noget. Men det var kun en fordel, for det betød, at bankerne og AcceptCard og Nykredit og arbejdspladserne i de store koncerner endnu ikke interesserede sig for dem, og derfor heller ikke kunne få lov til at ødelægge noget. De skyldte ikke nogen noget, og når man ikke skylder noget væk, behøver man ikke tage taktiske hensyn til folk med magt og på højere niveauer end en selv. Hvis banken henvendte sig, var det fordi den havde et tilbud til dem, og ikke fordi de skulle tilbyde banken noget. […] Der var intet at være bange for. De tænkte end ikke I ”niveauer”. Der var ingen ambitioner og ingen karriereplaner, og derfor heller ingen taktik og intriger. Ikke endnu. Der var kun de to. Og deres forhold.» (Historie om en ung mand..., p. 24)

Pour citer cet article :

Davide FINCO, Periferie esistenziali nella Copenaghen di fine millennio: Radiator (1997) di Jan Sonnergaard, Periferie: percezioni, conflitti e rigenerazioni, Publifarum, n. 28, pubblicato il 26/11/2017, consultato il 24/04/2024, url: http://www.farum.it/publifarum/ezine_articles.php?id=395

 

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