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Scrivere la rivoluzione: Il Sessantotto in Germania

Mauro PONZI



1. Memoria emozionale

Gli storici della cultura sono soliti distinguere tra gli eventi che hanno caratterizzato il Sessantotto, inteso come l’anno della rivolta studentesca, e l’accumulazione di ricordi, di analisi, di rappresentazioni che hanno contribuito a formare il mito del Sessantotto [Cf. CORNILS 2016].

Allora è meglio toccare subito un problema storiografico e politico che ha caratterizzato tutta la letteratura sul ‘68. Il prodotto principale del movimento studentesco NON è stato il terrorismo, come i giornalisti, soprattutto in Italia, tendono a scrivere. La rivolta studentesca ha prodotto una grande rivoluzione nei costumi, soprattutto nel comportamento sessuale, ha prodotto la liberazione di minoranze di genere e soprattutto ha dato rilievo mondiale al movimento femminista. Ha anche causato una piccola riforma universitaria e una nuova concezione dell’istruzione e della formazione, una grande rivoluzione nella moda, nella musica, nella produzione artistica. Diciamo che ha prodotto il giovanilismo, il mito del forever young che i sessantottini, ormai diventati sessantottenni, non hanno ancora abbandonato. Insomma il ‘68 ha provocato una rivoluzione culturale a livello mondiale. Il terrorismo è un fenomeno che si è servito della “palude” dell’estremismo operaio e studentesco, ma ha seguito itinerari del tutto diversi da quelli della contestazione globale studentesca ed è stato “inquinato” – e a volte “pilotato” – dai servizi segreti di mezzo mondo. In Germania, in particolare, il terrorismo è stato sostenuto da un lato dalla Stasi, dalla polizia segreta della DDR, che voleva destabilizzare la Repubblica Federale di Germania, e dall’altro dal movimento palestinese che metteva a disposizione i campi di addestramento.

Il ‘68 è stata una rivolta generazionale, un tentativo di cambiare il mondo, che ha investito tutti i paesi dell’occidente, ma che in ciascun paese ha assunto delle caratteristiche particolari. La rivolta in sé è durata pochissimo, poco meno che due anni, dal 1967 al 1969. È nata nelle università americane nel 1966/67 sulla base di movimenti giovanili e con un atteggiamento alternativo e antisistema, in cui gli scritti di Herbert Marcuse hanno svolto un ruolo importante [MARCUSE 1955 E 1964]. In Europa la rivolta è iniziata in Germania nel 1967 e in Italia con l’occupazione dell’università di Padova nel febbraio del 1968 ed è diventato un fenomeno di dimensione internazionale con il maggio francese.

In Germania il fenomeno è stato caratterizzato da una forte politicizzazione e anche l’interpretazione successiva dei fatti storici e del mito della rivolta studentesca ha assunto connotazioni prettamente politiche, legate al dibattito e alla lotta politica tedesca. Ben presto il movimento studentesco ha dato vita a un’opposizione extraparlamentare “Außenparlamentrische Opposition” (APO), che gli storiografi interpretano come una risposta contro la coalizione governativa tra i conservatori e il partito socialdemocratico formatasi nel 1966. La fase acuta della rivolta va dal giugno del 1967 all’autunno del 1968 con dimostrazioni di piazza contro la guerra del Vietnam, contro la visita dello scià di Persia, contro l’editore Springer e contro il governo che diede vita a delle leggi eccezionali, proclamando lo stato di emergenza.

Gli storici, nel trarre un bilancio del ‘68, lo hanno definito un “fallimento di successo” a causa del mancato raggiungimento di tutti gli obiettivi politici che il movimento di rivolta si era prefisso. Tuttavia il movimento ha provocato un radicale cambiamento della mentalità e dei comportamenti sociali. Alla fine della rivolta la maggior parte degli attivisti hanno iniziato, con rassegnazione e rimpianto, la loro “lunga marcia attraverso le istituzioni”, mentre una minoranza ha scelto la lotta armata.

In Germania l’immagine del ‘68, e quindi la sua interpretazione, non è mai stata uniforme, ma si è evoluta nel tempo. Nel 1990 il presidente della Repubblica Federale di Germania, Richard von Weizsäcker, ha dichiarato che il movimento andava considerato un fallimento e un tentativo di uscire dalla democrazia. Oggi invece assistiamo a una “normalizzazione” del movimento di protesta: c’è una mostra permanente sul ‘68 tedesco a Bonn (Haus der Geschichte) e a Berlino (Historisches Museum).

Una ricostruzione e una valutazione politico-critica del ‘68 tedesco è una strada irta di difficoltà. La prima di queste difficoltà consiste nel fatto che la ricostruzione degli eventi viene, anche a posteriori, utilizzata strumentalmente per la lotta politica contemporanea. Nel gennaio del 2001 Bettina Röhl, figlia della giornalista, poi divenuta terrorista, Ulrike Meinhof, ha postato sul suo website un’accusa a Joschka Fischer, ministro degli esteri e vice-cancelliere della Repubblica Federale, di essere stato un militante del movimento studentesco e di aver commesso dei gravi crimini. Il dibattito che ne è seguito sulla stampa e nel parlamento è terminato con la richiesta di Angela Merkel che tutti i politici, in qualche modo implicati nel ‘68, avrebbero dovuto rendere una dichiarazione pubblica in cui rinnegavano una volta per tutte il loro passato di militanti in una sorta di pubblica autocritica.

La seconda difficoltà nel ricostruire i fatti del ‘68 in Germania consiste nel cosiddetto “contesto di memoria”. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una sovrapproduzione di testimonianze, autobiografie e ricordi personali. Molti affermano che le promesse utopiche del movimento non sono state mantenute, altri invece sostengono che si debbano ormai abbandonare le utopie e ritornare alla morale e ai valori stabili e sicuri che esistevano nel pre-sessantotto. Questa memoria contestualizzata o memoria soggettiva ha dato vita a un confronto con il passato, rimettendo in gioco vecchie problematiche, a volte percepite come una messa in discussione dell’identità culturale e politica di un’intera comunità. Però ha portato la questione della rivolta giovanile di nuovo al centro del dibattito.

La terza difficoltà nel ricostruire storicamente gli eventi della rivolta studentesca è data dal conflitto tra le diverse generazioni. Mentre i sessantottini non hanno mai avuto alcuna influenza nel mondo degli affari, della finanza e dell’industria, hanno invece percorso la loro “lunga marcia attraverso le istituzioni”, assumendo posizioni di rilievo nelle università, nella scuola, nei media, nell’industria culturale. Ma anche i più accesi sostenitori della rivolta sono d’accordo nell’affermare che gli obiettivi politici del movimento studentesco non sono stati raggiunti. Insomma, le analisi storiche, politiche e culturali del fenomeno tendono a distinguere nettamente tra i fatti realmente accaduti (e la loro valutazione storica e politica) e la “memoria della rivolta” ossia il “mito della rivoluzione globale” che ha generato a sua volta una serie di miti e di prodotti artistico-letterari che hanno idealizzato quegli anni, quei personaggi e quegli eventi. Per quanto paradossale possa sembrare, è proprio questo “mito del ‘68” che ha prodotto una serie di cambiamenti radicali nei costumi, nella cultura, nei linguaggi, nei comportamenti delle generazioni successive.

Il Sessantotto è stata una rivoluzione contro l’autorità costituita, contro il sistema, contro i padri e ha assunto la forma di una rivolta generazionale, “giovanile”. E questo “giovanilismo”, il mito di forever young ha caratterizzato tanto la produzione culturale di allora quanto la memorialistica dei decenni successivi. In Germania, in particolare, questa rivolta contro i padri ha assunto una connotazione fortemente politica perché i “padri” erano stati nazisti o non avevano fatto nulla contro il nazismo, avevano “guardato dall’altra parte” per non vedere i campi di concentramento. E oggi, che i movimenti “sovranisti”, nazionalisti o apertamente razzisti hanno un certo seguito anche in Germania, quel che resta di quella memoria, di quel mito della rivolta, ha generato un nuovo movimento, per ora appena agli inizi, Aufstehen, che vuole unificare in un movimento, molto attivo sui social media, le sparse forze della sinistra. Già il nome del movimento è tutto un programma: nel suo spettro semantico Aufstehen significa, alzarsi, risorgere, prendere posizione, resistere, ribellarsi. Con tutte le differenze e le contraddizioni generazionali, esiste una continuità politica e ideale tra la contestazione globale del ‘68, il movimento dei verdi e questo nuovo movimento politico.

Albrecht von Lucke distingue tre distinte fasi della costruzione del mito del 1968: il primo periodo (1967-1977), in cui si è imposta la nozione dei sessantottini come una generazione politica [Cf. von LUCKE 2008]. I sessantottini hanno costruito la loro storia e lo stesso termine “sessantottino” ha assunto connotazioni positive da parte degli attivisti di una volta e, per contro, una connotazione decisamente negativa da parte dei conservatori. La seconda fase copre quasi trent’anni, e va dal 1978 al 2005, caratterizzata da un confronto armato tra lo stato e il terrorismo, ed è passata alla storia come Deutscher Herbst (autunno tedesco). In questo periodo la storia del 68 e dei sessantottini è stata interpretata come un dramma familiare. A partire dalla fine del governo di coalizione tra socialdemocratici e verdi, ci troviamo in una terza fase che si è posta il problema della memoria del passato, del futuro dei sessantottini e del loro fallimento, e della riabilitazione esplicita del sistema socio-politico allora contestato.

Gli studiosi qui citati (Ingo Cornils e Lucke), come la maggior parte degli storici e dei critici letterari tedeschi, danno un’interpretazione prettamente politica della costruzione del mito del sessantotto e del dibattito sulla contestazione globale. Le fasi di questa narrazione degli eventi vengono scandite da precise costellazioni politiche e coalizioni di governo, legate al destino dei Verdi, nei quali erano confluiti gran parte dei militanti del movimento studentesco. La ricaduta politica della rivolta sessantottina viene letta alla luce dell’alternanza tra socialdemocratici e democristiani alla guida del governo tedesco, con il contributo del movimento (o di quello che ne restava) per la conquista dei diritti sociali. Il terrorismo, il lungo periodo dell’“autunno tedesco” viene visto come un fenomeno parallelo, ma un po’ diverso dal movimento politico sessantottino.

Questo processo di costruzione del mito del 68 passa attraverso l’azione, durata decenni, della cosiddetta “generazione di fondatori attraverso la narrazione” che è stata una sorta di resa di conti col passato sotto forma di costruzione della propria identità, condotta talvolta in termini autocelebrativi, a volte in termini di autolegittimazione, a volte in termini di rifiuto del passato. Comunque questo processo di confronto con il ‘68 ha prodotto una rivivificazione degli eventi e delle problematiche di allora, una mitizzazione ed estetizzazione del “momento magico” e la drammatizzazione e teorizzazione di un’intera epoca. Alcuni dei nomi più noti della letteratura tedesca (Günter Grass, Peter Schneider, Uwe Timm, Friedrich Christian Delius) hanno pubblicato testi famosi non solo negli anni immediatamente successivi alla rivolta studentesca, ma anche nei decenni seguenti. Questi testi (e anche molti altri meno famosi) sono la rappresentazione del movimento studentesco che viene ammantato da un’aura utopica e serve a definire l’identità culturale, per analogia o per contrasto, di un’intera generazione.

Gli studi sul ‘68 tedesco sono numerosi e di diverso livello. La prima seria ricostruzione storica degli eventi è stata scritta da Nick Thomas [Cf. THOMAS 2003]. In occasione del quarantesimo anniversario della rivolta Timothy Garton Ash ha osservato ironicamente in un articolo [GARTON ASH2008] che è scorso più inchiostro per ricordare e commentare il ‘68 che sangue a Parigi dalla ghigliottina del 1789. La storia autentica della rivolta di alcune migliaia di studenti è confluita poi in un’altra serie di componenti quali sesso, droga e rock and roll, come affiora nella più popolare delle pubblicazioni allora diffuse tra gli studenti della Germania Ovest: «Konkret». Comunque il 1968 è l’anno di un radicale cambiamento, l’anno “dell’immaginazione al potere”. La maggior parte delle pubblicazioni sul ‘68 è di natura autobiografica, ricordi soggettivi di eventi personali e politici, testimonianze autentiche, ma che mancano di una riflessione sui fatti proprio perché troppo soggettive. Recentemente, a partire dal trentesimo anniversario della rivolta studentesca, si è risvegliato anche un interesse accademico sull’argomento: ci sono stati convegni internazionali, sono stati pubblicati dei libri, sono stati organizzati dei seminari [Cf. ROSS 2002 e PASSERINI 2008]. C’è un paradosso in questo interesse accademico: da un lato, la natura controversa del “1968” e il fallimento degli attivisti nel raggiungere uno dei loro obiettivi politici sembrano suggerire che per focalizzare la ricerca su questo argomento, è necessario un processo – forse inconscio – di simpatia e identificazione con questi stessi obiettivi. Ed è proprio questa empatia, questa passionale identificazione o avversione, che impedisce alla letteratura sul Sessantotto di essere “obiettiva”, di trattare gli eventi con distacco. Parlare del ‘68 significa sempre e comunque prendere una posizione politica, ideale, culturale su quegli eventi.

La rappresentazione del ‘68 come “mito di fondazione” si adatta a una serie di gruppi sorprendentemente eterogenei e persino a una decostruzione del mito stesso. Ora che la generazione dei sessantottini ha raggiunto l’età della pensione e con la celebrazione del cinquantesimo anniversario della rivolta studentesca, la memoria comunicativa si sta trasformando in memoria culturale. Come ha scritto recentemente Aleida Assmann, la memoria collettiva è quindi due volte rappresentativa: come parte del passato considerata vitale e come narrazione di esperienze individuali. Questa costruzione simbolica era vitale per l’orientamento della coscienza collettiva, ma deve essere trattata con molta cautela. Nonostante l’ambizione di avere il ruolo di preservare l’energia creativa del movimento, il corpo significativo dei testi narrativi del movimento studentesco tedesco è stato preso poco in considerazione nei dibattiti sulla storicizzazione del 1968. Le narrazioni del ‘68, infatti, hanno conservato una “memoria emozionale”, per cui la rappresentazione della rivolta studentesca in una prima fase è stata caratterizzata dalla narrazione soggettiva degli eventi, e nella seconda fase, dalla ricostruzione immaginaria del movimento. E questo termine va colto nella sua duplice valenza: immaginaria nel senso di una ricostruzione finzionale che non riproduce necessariamente la realtà storica così come è esattamente avvenuta, ma svolge, d’altro canto, un ruolo metaforico e allegorico, nel senso che costruisce il mito del ‘68. Lungi dall’essere una risposta auto-indulgente e malinconica alla fine del movimento studentesco tedesco, questi testi hanno svolto, e continuano a svolgere, una funzione significativa nella costruzione del mito del ‘68 in Germania come un momento utopico.

Va notato che la rappresentazione letteraria del ‘68 non è un fenomeno unicamente tedesco. Esiste un numero considerevole di romanzi in Francia, Italia, Inghilterra, Messico, Stati Uniti, ecc. Tuttavia i testi pubblicati in Germania sono più numerosi che nei singoli altri paesi e, come già detto, hanno una loro specificità culturale e politica. Sebbene il movimento studentesco in Germania sia durato appena due anni, la sua vita come “momento magico” nell’immaginario collettivo, nel vissuto e nella memoria dei singoli è durata per molti decenni. Tenere insieme le esperienze individuali e collettive costituisce una serie di nessi che sono i momenti formativi dei sessantottini, ma sono rilevanti anche per le generazioni successive: la tensione tra il privato e il politico; la consapevolezza che democrazia e libertà non possono mai essere date per scontate; le complesse questioni della libertà sessuale e delle relazioni personali; il confronto con il tormentato passato della Germania; l’elusiva unità di pensiero, azione e sentimento; il desiderio di mostrare solidarietà alle persone che vivono in estrema povertà; l’effetto liberatorio della musica alternativa e delle droghe allucinogene, l’energia rilasciata dall’attivismo politico; la lotta contro i grandi gruppi di informazione; e la ricerca di “socialismo con volto umano”; così come i tentativi di auto-organizzazione e mobilitazione per una causa.

Una delle caratteristiche politiche del movimento studentesco tedesco è stata quella di un confronto diretto con l’“altra Germania”, con la repubblica Democratica Tedesca, con il “comunismo reale”, che ha reso molto radicale la sua concezione di socialismo, per la volontà di differenziarsi, appunto, da ciò che accadeva “dall’altra parte del muro”. Però – come si è scoperto alcuni anni dopo – la DDR ha cercato di sfruttare il movimento studentesco per destabilizzare la Bundesrepublik e, soprattutto, ha finanziato e sostenuto il terrorismo. Quindi il rapporto del movimento tedesco con il comunismo reale è ambiguo e pieno di contraddizioni: da un lato il comunismo realmente esistente era ideologicamente un nemico, messo sullo stesso piano del capitalismo, dall’altro, però, c’erano infiltrazioni e rapporti nascosti con la Stasi. A proposito della memoria culturale e della memoria emozionale, di cui la letteratura tedesca del ‘68 è piena, va qui ricordato il film di Volker Schlöndorff, Il silenzio dopo lo sparo (2000) che tematizza questa problematica in tutta la sua drammaticità e in tutta la sua ambiguità. Anche per questo la rivolta studentesca del Sessantotto e il cosiddetto “biennio rosso” sono in Germania due fenomeni politicamente e ideologicamente diversi.

E, a questo proposito, va ricordato che nell’“altra Germania”, nella Repubblica Democratica Tedesca, come del resto in tutti gli stati del socialismo reale, il ‘68 come rivolta studentesca dei paesi occidentali non è mai esistito. La rivolta dei giovani era contro il partito e aveva degli obiettivi squisitamente politici per acquisire diritti democratici. La libertà sessuale, del resto, era già stata a lungo conquistata come piccola concessione del regime di consentire una “fuga nel privato” per evitare riflessioni e discussioni sulla politica. Inoltre le speranze di un “socialismo dal volto umano” sono state distrutte proprio nell’agosto del 1968 dall’invasione dei carri armati del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia che ha posto fine al tentativo di riforma di Dubcek. Quindi nei paesi del socialismo reale, e in particolare nella DDR, il ‘68, nell’immaginario collettivo e nelle rappresentazioni artistiche, ha assunto la connotazione di una rivolta contro il partito, contro l’Unione Sovietica, in termini indipendentisti. Il fallimento di questo movimento riformista e la fuga nel privato hanno dato vita a una serie di prodotti artistico-letterari caratterizzati dalla malinconia di una sconfitta, espressa in narrazioni del tutto differenti da quelle dei paesi occidentali.

2 Narrare la rivoluzione

La spinta rivoluzionaria del ‘68, in Germania come in Italia ha prodotto una serie di sperimentalismi artistici che in genere erano orientati verso le avanguardie, verso la rivoluzione dei linguaggi, dove la provocazione politica si coniugava con una provocazione espressiva. Quindi la produzione artistica del Sessantotto non ha una cifra stilistica univoca: l’impatto è stato così forte che ne troviamo gli effetti nei manifesti, nei titoli di testa dei film, nel cabaret, nelle installazioni, nel cinema, nei romanzi, nel teatro. Però, paradossalmente, la letteratura di riflessione sul ‘68, quella che ha creato il mito della rivoluzione giovanile, ha subito assunto i toni malinconici della sconfitta, dell’utopia irraggiungibile, della tragedia inevitabile. Nei due anni di rivolta studentesca abbiamo quindi una serie di fenomeni artistici, provocatori e spontanei, che si rifanno vagamente all’avanguardia, ma negli anni successivi le forme della narrazione della rivolta sono, certamente, molto politicizzate, ma, dal punto di vista dell’impianto narrativo, sono piuttosto tradizionali. E non alludo qui a quella moltitudine di autobiografie, diari, ricordi, che hanno contribuito a costruire il mito del “momento magico”, bensì proprio ai romanzi che hanno un minimo di ambizione estetica.

L’arte del ‘68 aveva, sulla scorta dell’atteggiamento delle avanguardie del primo Novecento, e in particolare del futurismo russo, proclamato la fine dell’arte borghese e cercato nuove vie di comunicazione artistico-letteraria. Questa palingenesi però è finita col dissolversi del movimento studentesco. La critica letteraria ha ripreso questo concetto di “morte della letteratura” e lo ha applicato anche alle opere successive [BULLIVANT 1989]. Gli autori su cui si appunta l’interesse della critica sono quelli che abbiamo indicato e che hanno avuto anche un certo successo di pubblico.

In termini di varietà stilistica, troviamo l’intera gamma della letteratura moderna: storie semplici attraverso diari e lettere con più punti di vista e flusso di coscienza; dal realismo documentario al realismo magico e al surrealismo; dalla linea politica ortodossa del partito al divertimento irriverente; dalla satira delicatamente ironica alla farsa e al cabaret. M. Lüdke ha pubblicato un libro intitolato Letteratura in tempi di radicale cambiamento [LÜDKE 1979]. Andrew Plowman prende in considerazione cinque romanzi in quanto narrazioni autobiografiche [PLOWMAN1998] e Ingeborg Gerlach ne analizza altri cinque come espressione della “Nuova Soggettività” e parla di “requiem della rivolta” [GERLACH 1994]. Gerlach distingue due linee: Literatur des Abschieds von des Studentenbewegung, la letteratura che narra l’addio alla rivolta e la Politisierungsliteratur, ossia la letteratura che tende a politicizzare il lettore.

In questa sede sarebbe troppo lungo riprendere l’osservazione di Heinrich Heine, secondo cui per comprendere la produzione letteraria tedesca è necessario conoscere la storia della filosofia e della religione in Germania. Heine, che cercava di spiegare la produzione letteraria tedesca della prima metà dell’Ottocento al pubblico francese, non intendeva solo dire che l’arte è influenzata dagli avvenimenti storico-sociali, ma che la produzione letteraria tedesca, anche quella apparentemente più disimpegnata, nasce sempre da convinzioni e prese di posizioni “ideologiche”, ossia “filosofiche o religiose”. Le narrazioni del ‘68 si inseriscono nel contesto particolare della letteratura tedesca di quel periodo e sono state, quindi, recepite, valutate e interpretate in quel contesto culturale. La contraddizione più stridente sta nel fatto che queste narrazioni sono state scritte nel periodo in cui si prendeva atto del fallimento politico del movimento e stilisticamente non hanno quel fuoco sperimentale del biennio di rivolta, bensì si inquadrano nel soggettivismo delle esperienze personali. Negli anni Settanta dominava in Germania (in tutte e due le Germanie) quella corrente detta “Nuova Soggettività” o “Nuova Sensibilità”, molto spesso coniugata al femminile, i cui esponenti più famosi sono Christa Wolf, Ingeborg Bachmann e Peter Handke. Le narrazioni del ‘68 risentono dei toni soggettivi e malinconici di questa corrente e a volte vengono trattate nella storiografia letteraria come varianti, artisticamente “minori”, della Neue Subjektivität. Insomma, queste narrazioni – ripeto: quelle che hanno un minimo di ambizione estetica e non la semplice memorialistica – sono contrassegnate dalla contraddizione di avere una componente politico-ideologica molto forte, ma un linguaggio artistico dimesso, che rischia di cadere nell’auto-commiserazione e nella malinconia. Questo perché, in genere, l’elemento soggettivo e la memoria culturale erano accompagnati da un desiderio più o meno esplicito di raccontare i “fatti” che si traduceva in una prosa “oggettiva”, scarna, “realistica”, dagli effetti estetici piuttosto problematici. Per essere severi, si potrebbe dire che gli autori in questione non avevano capito bene la differenza tra narrare e descrivere, teorizzata da Lukács nel suo famoso saggio del 1936 [Lukács 1964: 269-323].

Ralf Schnell interpreta i testi sul sessantotto in chiave psicologica come un “riflusso romantico”, un inseguire sogni immaginari di fronte a una realtà fallimentare [Cf. SCHNELL 1993]. La memorialistica malinconica ha indubbiamente favorito questa chiave interpretativa, che però per decenni ha impedito un serio dibattito sul mito del Sessantotto. Mary Fulbrook e Martin Swales affrontano la questione con un taglio differente, utilizzando l’approccio del New Criticism: essi ritengono irrilevante la questione se i fatti narrati nei romanzi siano veri o immaginari [Cf. FULBROOK – SWALES 2000]. Sostengono che le narrazioni possono creare opinione anche se prive di verità storica. Forse è impossibile conoscere il passato così come è realmente avvenuto, ma è possibile, attraverso la narrazione, conferire un senso al passato. E questa è forse la chiave per comprendere le narrative e identitarie della memoria culturale che si sono sviluppate negli ultimi decenni. Hermann Peter Piwitt, un attivista del movimento extraparlamentare, giornalista e scrittore, si era già posto la domanda, quarant’anni fa, sul senso politico e letterario di autori che finivano per scrivere esperienze condivise come ex-sessantottini, narrando fatti già accaduti, definitivamente passati [PIWITT 1975: 37]. La distanza temporale con il movimento studentesco ha spinto gli autori a ricostruire il senso dell’esperienza collettiva del passato per costruire un’identità condivisa. Ma questa narrazione identitaria ha incontrato una forte resistenza da parte della critica letteraria. Il carattere memorialistico e soggettivo della maggior parte delle narrazioni sul Sessantotto ha provocato le osservazioni stilistiche e le critiche sulla scarsa politicità delle argomentazioni e sulla scelta di una struttura narrativa legata alla Nuova Soggettività piuttosto che a qualche forma di sperimentalismo linguistico. Ma la letteratura tedesca sul Sessantotto non ha un carattere propagandistico, non vuole persuadere il lettore, piuttosto si rivolge a quei lettori che hanno precedentemente condiviso le esperienze di rivolta. Ciò non vuol dire che le rappresentazioni letterarie del “1968” non abbiano tentato la sperimentazione stilistica, ma per molti scrittori era più importante rappresentare l’esperienza della rivolta che produrre un testo stilisticamente significativo. Insomma, la letteratura del Sessantotto non si è posta problemi estetici, ma voleva rappresentare il vissuto. L’opera principale di Peter Weiss, Die Ästhetik des Widerstrandes (1975-1981) tenta appunto di tematizzare il contrasto tra la narrazione dei fatti e l’ambizione estetica di questa stessa narrazione. L’“estetica della resistenza” tenta di dare un senso alla storia, ricostruendo il passato a partire dalle narrazioni letterarie degli eventi.

Hans Magnus Enzensberger ha affermato nel 1967 in un articolo sul «Times Literary Supplement» che la Repubblica Federale di Germania era «quasi irrecuperabile»: si trovava di fronte alla scelta di accettare lo stato delle cose o cambiare radicalmente mediante una rivoluzione. Enzensberger ha continuato ad esprimere queste sue critiche nella rivista «Kursbuch», da lui fondata nel 1965, e ha enunciato la tesi che se gli scrittori avevano una missione sociale, questa era quella di intraprendere una “lunga marcia attraverso le istituzioni”. Tesi ripresa, qualche mese dopo, da Rudi Dutschke. L’appello di Enzensberger per una «alfabetizzazione politica della Germania» può essere considerato il “grado zero” della costruzione del mito del ‘68 tedesco. La società tedesca di allora aveva una struttura fortemente conservatrice, come del resto risulta, molto prima della rivolta giovanile, dal romanzo di Heinrich Böll Opinioni di un clown (1963). Enzensberger è stato molto influenzato dal nascente movimento studentesco americano. Ha trascorso un anno a Cuba per seguire il mito di Fidel. È rimasto molto deluso dal socialismo reale in versione cubana e ha scritto una biografia, sullo stile delle “corrispondenze operaie”, dell’anarchico spagnolo Buenaventura Durruti. Nel 1978 Enznesberger ha pubblicato Der Untergang der Titanic, una “commedia in versi”, uscita in italiano presso Einaudi nel 1990 con il titolo La fine del Titanic, in cui sostiene che l’umanità non è in grado di imparare dai suoi errori. Con quest’opera ha tentato di mettere in atto quella campagna di alfabetizzazione politica della Germania e ha posto la questione della funzione dell’arte e della letteratura nella società moderna. Tale “alfabetizzazione” riprendeva in realtà una serie di dibattiti avvenuti all’interno della cultura tedesca negli anni Trenta, durante la cosiddetta “letteratura dell’esilio”, che era molto politicizzata, e che aveva visto come protagonisti Georg Lukács, Bertolt Brecht, Walter Benjamin, Hannah Arendt. Il periodo del nazismo, della guerra e della ricostruzione aveva interrotto qualsiasi dibattito politico e aveva spinto la grande maggioranza della popolazione tedesca verso il conformismo. Questo rifarsi alla tradizione politica prima del nazismo significava mettere in discussione il modello tedesco, mettere in discussione il sistema.

Peter Schneider, nel ‘68 studente di letteratura tedesca alla Freie Universität di Berlino e aspirante scrittore, può essere indicato come un esempio significativo del percorso politico e culturale della generazione dei sessantottini tedeschi. Nel suo discorso, tenuto il 5 maggio 1967 alla Freie Universität di Berlino ha parlato di “pathos dell’indignazione”. Ha avuto modo di sviluppare il ragionamento su «Kursbuch» – una rivista culturale che, come si è visto, ha svolto un ruolo centrale nel Sessantotto tedesco – nei saggi Die Phantasie im Spätkapitalismus und die Kulturrevolution (La fantasia nel tardo capitalismo e la rivoluzione culturale) e Rede an die deutschen Leser und ihre Schriftsteller (Discorso ai lettori tedeschi e ai loro scrittori). Schneider sostiene che i desideri collettivi e individuali debbono prevalere rispetto al conformismo, al rigore della polizia, della stampa e alle esigenze dell’industria e del sistema. Schneider ha trascorso sei mesi in Italia come attivista del movimento studentesco fino a che è stato espulso per morivi politici. In questo rappresenta, come si diceva, una caratteristica molto tipica del ‘68 tedesco, ossia un rapporto privilegiato con l’Italia e l’Italia come modello. L’Italia rivoluzionaria, ovviamente, quella del movimento politico, del rapporto studenti-operai, dell’occupazione delle fabbriche e delle università, della “terza via”, del teatro politico di Dario Fo, della musica popolare, ecc. L’esperienza italiana di Schneider è stata la base del suo libro Lenz (1973) in cui l’autore esprime le frustrazioni per le sconfitte del movimento politico e, d’altro canto, la gioia per la solidarietà dei “compagni” nonché le complicate e tormentate relazioni personali. Anche questo romanzo è stato collocato dalla critica letteraria tedesca nel periodo di transizione tra la letteratura di protesta e la “nuova interiorità”, ossia quel movimento letterario di riflessione sulla propria condizione umana, molto soggettivo e malinconico. Come si vede, le posizioni politiche inizialmente molto radicali, hanno poi trovato una loro espressione letteraria nella riflessione sugli obiettivi non raggiunti, sulla delusione e il malinconico ricordo. Alla radicalità delle posizioni politiche corrisponde uno stile letterario molto tradizionale, intimistico e soggettivo. Tuttavia nei suoi romanzi Schneider si è sempre posto il problema del rapporto tra rivoluzione e letteratura, ma se lo è posto in termini soggettivi, chiedendosi cioè come e cosa debba scrivere uno scrittore rivoluzionario. Nel suo romanzo Skylla (2005) Schneider racconta la storia di due amici che vivono in Italia e ripensano ai tempi della lotta studentesca, dell’assalto alla casa editrice Springer e alla morte di gente innocente. Anche se non direttamente in chiave autobiografica, questo romanzo si colloca nella letteratura della memoria, della riflessione sul passato, delle ferite ancora aperte. Si tratta di un tentativo di storicizzare e giustificare il movimento studentesco tedesco attraverso l’immagine mitologica di Scilla e Cariddi, in un dualismo tra gli slanci rivoluzionari e le delusioni, tra il pubblico e il privato, tra il movimento di rivolta e il ricordo dell’opportunità mancata. Sembra quasi che Schneider in questo romanzo voglia riflettere sulle “colpe” del movimento, sugli errori commessi. È insomma un romanzo di pieno riflusso.

Il romanzo di Uwe Timm Heißer Sommer (L’estate calda, 1974) è un esempio paradigmatico della ricostruzione letteraria della rivolta studentesca dall’estate del 1967 all’autunno del 1968. Il protagonista, Ullrich Krause, studia germanistica a Monaco, ma quando lo studente Benno Ohnesorg viene ucciso a Berlino dalla polizia durante una manifestazione contro la visita dello scià di Persia, decide di trasferirsi ad Amburgo. Durante il viaggio fa visita ai suoi genitori e ha una vivace discussione con suo padre, un ex-nazista. Fin dall’inizio la narrazione di Timm si rivela una trattazione esemplare della rivolta giovanile, a cominciare dal forte contrasto generazionale: una rivolta contro la figura del padre e contro l’autorità costituita. Ad Amburgo il protagonista del romanzo entra nel movimento studentesco, vive in una comune, fa uso di droga, partecipa alle attività di un gruppo teatrale, lavora in fabbrica e viene a contatto con la classe operaia e alla fine ritorna a Monaco per concludere i suoi studi e fare l’insegnante. Una trama semplice, fatta quasi di cliché, narrata con uno stile laconico, però costruita su molti livelli di significato e densa di riferimenti letterari. Timm combina le sue varie fonti, cita direttamente brani della tradizione letteraria tedesca, brani di giornali, discorsi alla radio, pubblicità, di critica letteraria e ovviamente di teoria politica. Ma questa tecnica narrativa – che ricorda direttamente quella della Neue Sachlichkeit, ossia la tecnica del montaggio di livelli linguistici diversi, tenuta insieme dalla “oggettività”, di cui Berlin Alexanderplatz (1929) di Alfred Döblin è l’esempio più famoso – non è supportata da una drammaturgia convincente né da una forte espressività del linguaggio. Uwe Timm ha partecipato anche materialmente negli anni ‘70 alla sperimentazione di una cooperativa editoriale, Autoren/Edition, che avrebbe voluto concretizzare anche nella produzione un principio di direzione collettiva della casa editrice.

Uwe Timm è ritornato, in chiave paradossale, sul ‘68 con il suo romanzo Rot (2001), uscito anche in traduzione italiana (Rosso, Le Lettere, 2005). Anche questo è un romanzo paradigmatico della generazione dei sessantottini, ormai avviati verso la pensione, che ripensano a quei tempi, alle speranze, alle delusioni, agli errori degli attivisti della rivolta. Qui la malinconia per il tempo perduto si inquadra nella memorialistica e contribuisce a creare quel “mito” del 68, di cui parla diffusamente Ingo Cornils nel suo libro già citato. Bisogna considerare che Uwe Timm è in Germania uno scrittore di successo: i suoi romanzi hanno una tiratura iniziale di 35.000 copie, vengono recensiti, discussi, criticati, letti. La sua produzione è molto variegata: si è confrontato con la necessità dei tedeschi di fare i conti col proprio passato, continuando, in altre forme, la polemica generazionale contro i padri che non hanno voluto portare alla luce la loro adesione al nazismo o le guerre coloniali. Nel 1978 ha pubblicato un romanzo Morenga che narra del genocidio compiuto dai tedeschi in Namibia all’inizio del secolo. «Molti dei soldati che avevano combattuto in Namibia finirono nei Freikorps, le milizie antisemite e naziste che dopo il 1918 terrorizzavano le città tedesche a caccia di comunisti. Il generale nazista Franz von Epp, per dire, era un veterano della Namibia: un altro indizio che l’Africa fu un laboratorio per le atrocità successive dei nazisti. È tutto intrecciato» – afferma Uwe Timm in un’intervista al “Venerdì di Repubblica” del 2 giugno 2017. Am beispiel meines Bruders (2003) – pubblicato in italiano con il titolo Come mio fratello nel 2007 – è un libro che ha avuto successo, in cui l’autore ricorda il fratello più grande, arruolatosi nelle SS e morto durante la seconda guerra mondiale. Uwe Timm si confronta, insomma, con l’identità della sua generazione e con la memoria personale e collettiva sotto molti punti di vista ed è forse l’autore più significativo della letteratura del ‘68, proprio perché attraversa tutti i temi e i motivi di questa tipo di narrativa. E, paradossalmente, è paradigmatico anche nei difetti stilistici ed estetici del “narrare la rivoluzione”: riesce sempre a costruire grandi impianti narrativi con spunti molto interessanti, ma non sempre ha la forza linguistica ed espressiva di portare fino alla fine la tensione all’interno della sua architettura letteraria. E proprio la scelta dell’“oggettività”, del narrare senza fronzoli, del basarsi su storie vere, soffoca a volte l’innovazione linguistica e persino la fluidità del narrato.

Friedrich Christian Delius ha fornito un contributo alla costruzione della memoria del ‘68 con il romanzo Amerikahaus und der Tanz um die Frauen (Amerikahaus e la danza attorno alle donne, 1997). America House era il centro culturale americano a Berlino ovest e Delius racconta la storia di Martin e delle sue esperienze prima della rivolta studentesca nell’anno 1967, un anno “caldo” per la Germania ovest. Il romanzo di Delius occupa una posizione significativa nella geografia della memoria sessantottina perché tematizza gli inizi del movimento giovanile. Ma, a differenza di Uwe Timm che costruisce le sue narrazioni dall’interno del movimento di protesta, Delius – forse per ragioni biografiche e politiche – lo fa come spettatore, come osservatore esterno. Il protagonista del romanzo, Martin, si trova coinvolto in una manifestazione contro la guerra del Vietnam e ha modo di osservare la violenza dei poliziotti e dei dimostranti. Il romanzo è tutto costruito sul contrasto tra la istintiva ribellione contro l’autorità e i dubbi e limiti della legittimità dell’uso della violenza. Sotto questo aspetto Delius non si distacca dalla costruzione della memoria culturale fatta di dubbi sui mezzi usati per affermare i diritti del movimento e per contestare le autorità costituite. L’altro romanzo legato al ‘68 è Mein Jahr als Mörder (Il mio anno da assassino, 2004, uscito in edizione italiana da Feltrinelli nel 2007). Delius, che usa un linguaggio un po’ più elaborato e fruibile della memorialistica della rivolta studentesca, si basa per questo romanzo su fatti reali. Uno studente di Berlino ascolta per radio la notizia che un giudice ex nazista è stato assolto dall’accusa di crimini di guerra, benché avesse condannato a morteGeorg Groscurth, medico personale di Rudolf Hess, diventato membro della resistenza, e decide di uccidere il giudice nazista, come atto di giustizia del popolo. Nel corso della narrazione, si scopre che questo giudice, nel dopoguerra, ha perseguitato anche la vedova Groscurth, accusandola di essere una spia comunista. Inoltre si viene a sapere che tra i molti condannati a morte dal giudice c’era anche il padre di un amico d’infanzia dello studente. Il romanzo pone una serie di problemi complessi, quale ad esempio il rapporto tra notizia e storia. La narrazione è in realtà una ricostruzione storica delle vicende del gruppo di resistenza e dell’esecuzione di molti dei suoi membri ad opera del giudice. L’antinazista ghigliottinato era il fidatissimo medico personale della seconda figura del regime, Rudolf Hess, e che appunto tale circostanza gli permetteva di operare in relativa sicurezza per il gruppo clandestino chiamato Unione Europea. Un altro del gruppo, Herbert Richter, era un architetto che allestiva mostre di propaganda statali e feste nella casa del Presidente del Consiglio dei ministri, Hermann Göring. Un terzo, il chimico Robert Haveman, riuscito a salvarsi, viveva nel dopoguerra nella Repubblica Democratica Tedesca (dove, per altro, era perseguitato a causa del suo dissenso nei confronti del regime comunista). Il progettato assassinio del giudice ex-nazista da parte dello studente alla fine non si compie. Il romanzo è quindi basato sulla ricostruzione della memoria dei fatti compiuti dalla “generazione dei padri” e affronta il problema non risolto del “fare i conti col passato”, tipico della generazione sessantottina. A differenza di Timm, Delius non esplicita le sue fonti artistiche. Il tema della giustizia privata nei confronti dei nazisti autori di crimini di guerra era stato trattato dal primo film tedesco del dopoguerra, prodotto nella Germania-est nel 1946, Die Mörder sind unter uns (Gli assassini sono tra di noi) in cui si rappresenta una donna che scopre che un medico è in realtà un aguzzino dei Lager e si propone di “giustiziarlo”, ma alla fine lo consegna alla polizia per un “giusto” processo. La memoria del passato con cui si confronta Delius non è solo la memoria degli eventi bellici e della responsabilità dei crimini, ma anche la memoria della giustizia non compiuta e, di nuovo, coniugato in un ambito diverso, della violenza e dei limiti della violenza “giusta”. Delius, un autore molto prolifico e abbastanza noto in Germania, si era già confrontato con il tema della giustizia, della violenza e della vendetta nei suoi romanzi sul terrorismo1.

Oltre ai romanzi qui velocemente analizzati, ci sono una serie di autori, che hanno avuto meno successo, che trattano nelle loro opere i temi della rivolta, della memoria, della giustizia, del confronto generazionale e che hanno contribuito a costituire il mito del Sessantotto in Germania. Il vero sforzo per rappresentare l’essenza del ‘68 si concentra nelle narrazioni tedesche nel focalizzare ciò che accadeva nelle strade, nelle manifestazioni di massa, in cui sembrava concretizzarsi il “movimento politico” e il “pensare comune” [Cf. HECKEN 2008].

Non bisogna dimenticare la “rivoluzione delle donne”: il movimento studentesco di contestazione globale ha dato visibilità, infatti, al femminismo e alla “lotta di liberazione” delle donne, che si può considerare l’effetto più rilevante e duraturo del Sessantotto [Cf. ROWBOTTHAM 2000]. Emancipatesi rapidamente dal ruolo marginale in cui il movimento studentesco le aveva in un primo tempo relegate, le donne hanno riportato l’attenzione sulla politicità dei comportamenti privati, dando concretezza a uno slogan molto in voga negli anni Settanta. Alcune figure femminili hanno avuto un ruolo rilevante nel movimento di rivolta del 68 tedesco: Sigrid Fronius è stata presidente dell’Unione Studentesca della Freie Universität Berlin nel 1968, Silvia Bovenschen, membro del gruppo maoista SDS, ha pubblicato un libro dal titolo Die imaginierte Weiblichkeit (La femminilità immaginata, 1979), Helga Reidemeister, che viveva nella stessa comune di Berlino Ovest in cui viveva Rudi Dutschke, è diventata sceneggiatrice e regista e nel 1988 ha prodotto un film sulla tragica storia di Rudi. Beate Klarsfeld, che aveva sposato un ebreo francese i cui genitori erano morti ad Auschwitz, durante un congresso della CDU, nel novembre del 1968, ha schiaffeggiato il cancelliere Kurt Georg Kiesinger per il suo passato nazista e per questo è stata condannata a un anno di prigione. Nel 2012 candidata del partito Die Linke, ha ricevuto nel 2015, assieme a suo marito, l’ordine al merito della Repubblica Federale per la sua caccia ai criminali di guerra nazisti. Questo può essere indicato come un esempio paradigmatico della “lunga marcia attraverso le istituzioni” dei sessantottini tedeschi, ma anche del cambiamento di valutazione del loro operato da parte del “potere consolidato”. Tuttavia, benché la letteratura delle donne e il relativo movimento di liberazione siano stati i prodotti più durevoli e significativi della rivolta studentesca, le narrazioni al femminile rientrano solo in parte nella costruzione del mito del ‘68 giacché hanno creato un nuovo linguaggio e una nuova mitologia “di genere” che procede per percorsi paralleli, ma distinti da quelli della narrazione (e della costruzione della memoria collettiva) della rivolta sessantottina.

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Notes

↑ 1 Ein Held der inneren Sicherheit (Un eroe della sicurezza interna, 1981), Mogadischu Fensterplatz (Un posto per Mogadiscio vicino al finestrino, 1891), Himmelfahrt eines Staatsfeindes (L’ascensione di un nemico dello Stato, 1992).

Pour citer cet article :

Mauro PONZI, Scrivere la rivoluzione: Il Sessantotto in Germania, L’imaginaire de Mai 68 dans la littérature contemporaine, Publifarum, n. 34, pubblicato il 00/00/2020, consultato il 18/04/2024, url: http://www.farum.it/publifarum/ezine_articles.php?id=483

 

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