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Il Commissario che voleva aggiustare i destini

Giorgio PINOTTI


Selmer reprenait son souffle en rangeant l’automatique dans son étui in-octavo. Il regarda Carrier qui regardait Albin qui regardait Lafont qui ne regardait rien. Les yeux du géant étaient aussi vides que le terrain vague, auquel s’accordait leur nuance terreuse. Albin les ferma ; Carrier ferma la porte et Selmer ferma son livre. “Il est mort,” redonda Albin, c’est emmerdant
J.ECHENOZ, Le Méridien de Greenwich
Il courut ainsi à travers une vingtaine de carrés potagers ou floraux, défilant parfois devant des cellules familiales torpides installées à l’ombre de grandes cafetières derrière les fenêtres des pavillons, mais qui le virent passer si vite qu’on n’eut pas le temps de s’en émouvoir, qu’on le prit pour une dernière miette des rêves d’où l’on sortait J. J.ECHENOZ, Cherokee

Con Pietr il Lettone – la prima delle inchieste che Simenon, nella primavera del 1930, propone a Fayard – Maigret si piazza, è il caso di dirlo, nella tradizione del romanzo poliziesco:

La presenza di Maigret al Majestic aveva inevitabilmente qualcosa di ostile. Era come un blocco di granito che l’ambiente rifiutava di assimilare […] Maigret era enorme e di ossatura robusta […] Aveva in particolare un modo tutto suo di piazzarsi in un posto che era talora risultato sgradevole persino a molti colleghi. Era qualcosa più della sicurezza, ma non era orgoglio. Arrivava solido come il granito, e da quel momento pareva che tutto dovesse spezzarsi contro di lui, sia che avanzasse, sia che restasse piantato sulle gambe leggermente divaricate. Teneva la pipa inchiodata in bocca e non la toglieva di certo perché si trovava al Majestic. C’era forse qualcosa di voluto in quella volgarità, in quella fiducia in sé? (Pietr il Lettone: 20)1.

Strano detective. Inelegante nel suo pesante cappotto, visibilmente ostile al lusso che lo circonda e poco attachant. Goffo, corpulento e sorretto da una forza tranquilla, con occhi un po’ bovini e in apparenza vacui (si veda ad es. Il pazzo di Bergerac: 99), che ingannano l’interlocutore. Iperdeterminazioni di un antieroe (BAJOMÉE 2003: 38). Certo, ma Fayard è perplesso. Come dargli torto? Simenon per fortuna ha le idee chiare: sulle copertine, che immagina illustrate da foto in bianco e nero2, come sul lancio, che dev’essere clamoroso. Fayard cede: nel febbraio del 1931 pubblicherà Il defunto signor Gallet e L’impiccato di Saint-Pholien, e poi altri quindici Maigret fino all’ottobre del 1932, al ritmo di uno al mese. Le leggi del genere poliziesco sono saltate. Maigret, del resto, viene da lontano, ha avuto una genesi lunga e tortuosa, legata alla produzione popolare sotto pseudonimo. E se Simenon sostiene di averlo concepito per un’improvvisa illuminazione nel settembre del 1929 mentre si trovava a Delfzijl, in Olanda, con l’Ostrogoth e di aver subito scritto, di getto, Pietr il Lettone, sappiamo ora che le cose non sono andate proprio così: il primo Maigret fu con ogni probabilità La Maison de l’inquiétude, composto a Stavoren o forse proprio a Delfzijl nel 1929; rifiutato da Fayard, apparve a puntate nel 1930 a firma Georges Sim – e fu per queste ragioni rimpiazzato nella leggendaria ricostruzione simenoniana da Pietr il Lettone (per una sintetica ma efficace panoramica degli esordi di Maigret si veda DUBOIS 2003a: XXXV-XXXVI). Artigiano disciplinato e infaticabile non meno che imprenditore di sé oculato e sagace, Simenon è sempre stato in fondo anche un mistico o un veggente: gestazione angosciosa dei romanzi, vorticosa e spossante stesura in stato di trance – o di «possession quasi libidinale» (DUBOIS 2003b: 65).

Quali che siano le sue remote origini, Maigret è un detective senza precedenti. Ha un passato, e traumatico per giunta: ha solo otto anni quando la madre muore di parto, a dodici si trasferisce dalla zia a Nantes e a venti perde anche il padre, il che lo costringe ad abbandonare gli studi di medicina (Le memorie di Maigret: 48-56). Un passato che lo tiene soggiogato: «Adesso era una persona adulta: lo pensavano tutti, e solo lui, ogni tanto, faticava a convincersene» (Il mio amico Maigret: 127). Ha una moglie, Louise, alsaziana, devota e materna, discreta e remissiva, dispensatrice di cibo e di pace. Ha un porto sicuro, l’appartamento di boulevard Richard-Lenoir, che abbandonerà solo per ritirarsi a Meung-sur-Loire (si veda l’utile schedatura di LEMOINE 2000: 173-76, e CARLY 2003: 155-57). Ha, soprattutto, un carattere che diventerà leggendario: riservato, solitario (Pardon – un medico, guarda caso – è uno dei suoi pochi amici; si veda ad es. Maigret si confida: 29), aggrappato alle abitudini, paterno (nei confronti dei suoi più fidi collaboratori, anzitutto), capace come pochi di decifrare e comprendere le passioni altrui ma poco incline a cedervi, Maigret oppone al perturbante caos del crimine e del desiderio la placida certezza della stabilità piccolo-borghese (sul suo entourage si veda ALAVOINE 1999: 33-37, sulla sua «apathie sensuelle» BAJOMÉE 2003: 49-50):

Sempre rimanendo distesa, fece un movimento e la vestaglia si aprì. Maigret sembrò non farci caso. «Tutto qui l’effetto che le fa?» chiese lei. «Che cosa?». «Quello che vede». Il commissario non batté ciglio e lei, spazientita, con un gesto sfrontato aggiunse: «Vuole favorire?». «Grazie». «Grazie sì?». «Grazie no». «Be’ caro mio… Certo che lei…». «Si diverte a essere volgare?». «E si mette anche a farmi la predica, per giunta?». Intanto, però, aveva riavvicinato i lembi della vestaglia e si era seduta sul bordo del letto (Maigret e l’uomo della panchina: 165-66).

Non di rado è cupo, tetro, di cattivo umore (sulla sua maussaderie si veda BAJOMÉE 2003: 39), a volte fragile, vulnerabile – conosce il senso di colpa, il dubbio, lo scacco e lo smarrimento, come molti titoli evidenziano in maniera strategica: Maigret se fâche (1947), Maigret a peur (1953), Maigret se trompe (1953), Un échec de Maigret (1956), Les Scrupules de Maigret (1958), Une confidence de Maigret (1959), La Colère de Maigret (1963), Maigret hésite (1968). Nipote di mezzadri, figlio dell’intendente del castello di Saint-Fiacre, ha vissuto in bilico fra due mondi: è dunque trasversale, l’uomo del juste milieu (BAJOMÉE 2003: 47-48), o forse «un uomo e basta» (Il porto delle nebbie: 85). Ma per lui la società resta rigidamente bipartita, e invalicabile la frontiera fra quei mondi – l’altezzosa cerchia del sindaco di Ouistreham e la gente del porto che si ritrova alla Buvette de la Marine, il dedalo di sotterranei in cui si agita il personale dell’Hôtel Majestic e lo sfarzo opulento e ovattato dei piani superiori. Gli piace Prosper Donge, il responsabile della caffetteria del Majestic, un ragazzone coi capelli rossi e il viso butterato dal vaiolo, cresciuto in brefotrofio, mite e laborioso: nella casa dove vive con Charlotte si respira «quel buon odore delle case modeste, un odore rassicurante che pare emanare dai muri, e quel profumo familiare di carne che cuoce piano piano su un letto di cipolle dorate» (I sotterranei del Majestic: 35). Gli piace Gaston Meurant, il corniciaio di rue de la Roquette, anche lui timido e scialbo, paziente e ostinato, anche lui cresciuto in brefotrofio e deciso a «fondare una famiglia, una vera famiglia, normale, con dei bambini da portare a spasso la domenica tenendoli per mano» (Maigret in Corte d’Assise: 73). Sia Donge che Meurant, del resto, hanno avuto un solo torto: quello di innamorarsi di donne ciniche e volgari, troppo avide di vita. Gli piace molto di meno un notabile di paese come Grandmaison, sindaco e armatore, «che si crede un padreterno, si veste da gentiluomo di campagna e paga il suo tributo alla democrazia distribuendo indifferenti strette di mano, salutando distrattamente gli abitanti del posto e chiedendo di tanto in tanto notizie dei loro figli» (Il porto delle nebbie: 38). E non gli piace affatto il giudice Coméliau, suo intimo nemico, che, con un nonno presidente della Corte d’Appello di Parigi, un padre al Consiglio di Stato e uno zio ambasciatore di Francia a Helsinki, non può che essere «un tipico rappresentante di quel mondo, asservito alle sue abitudini, alle sue convenzioni e persino al suo linguaggio» e con un unico punto di vista: quello del suo ceto (Maigret si confida: 103). Ma può capitare che di fronte a uomini come Bellamy, aristocratico, elegante, padrone di sé – e brillante neurologo – Maigret vacilli, regredisca pericolosamente all’infanzia, quando a Saint-Fiacre la contessa gli appariva «nobile ed elegante come l’eroina di un romanzo popolare», o la vedeva, una veletta sul viso, allontanarsi a bordo di un’auto «traboccante di pellicce e impregnata di profumo» come in un «rapimento eroico» (Il caso Saint-Fiacre: 104):

Una ragazza era morta, una buona suora con la faccia da immaginetta gli aveva infilato un bigliettino in tasca, e lui si ritrovava a girare attorno al dottor Bellamy come fa uno scolaretto con il compagno di classe più ricco […] Non volle più guardare il dottore. La cosa stava diventando troppo evidente. L’altro poteva scoprire il suo gioco, intuire le sue timidezze, deriderlo... […] Per la prima volta da molto tempo, forse per la prima volta nella vita, Maigret aveva la sensazione di non essere lui a controllare la situazione, ma che, al contrario, un altro lo stesse manovrando.
Da parte sua Maigret, di fronte a un interlocutore capace di tenergli testa, si trovava in uno stato tale di ricettività che gli sembrava di captare ogni minima sfumatura del pensiero dell’altro […] Sembrava che i loro pensieri, così come il loro passo, collimassero di nuovo, e come vecchi amanti non avessero più bisogno di lunghe frasi, ma solo, per così dire, di un’algebra del linguaggio (Le vacanze di Maigret: 44 e 46-7).

Chi varca temerariamente quella frontiera, compiendo un passage de la ligne, provoca allora il disordine, una lacerazione nell’ordine delle cose: come Mimi, l’entraîneuse che ha voluto diventare Mrs Clark, moglie di un facoltoso industriale di Detroit (I sotterranei del Majestic); come Adrien Josset, lo squattrinato aiutofarmacista che il matrimonio con Christine Lowell ha elevato al rango di fortunato imprenditore – ma che gli amici della moglie continuano a considerare un infiltrato, un ambizioso senza scrupoli (Maigret si confida); come, all’inverso, Jean Darchambaux, il medico condannato a quindici anni di lavori forzati e ora trasformato in un bruto silenzioso dallo sguardo di una limpidezza sconcertante, «lo sguardo che hanno certi scemi del villaggio, o certi animali che, abituati a essere trattati bene, vengono improvvisamente malmenati» (Il cavallante della «Providence»: 46). Sempre il passato rifluisce, intersecando il presente – e si scatena la violenza (cfr. su questo aspetto DUBOIS 1993: 91-92).

Lontano anni luce da Holmes, Rouletabille o Poirot, Maigret è un investigatore assai poco ortodosso, che ha esteso «l’herméneutique indicielle à des faits et aspects autres que matériels» (DUBOIS 2003a: XXXVIII). Si capisce dunque la sua ansia allorché un ispettore di Scotland Yard, l’amabilissimo Mr Pyke, per studiare i suoi metodi lo segue a Porquerolles, dove qualcuno ha ucciso con feroce accanimento il vecchio Marcellin. Forse proprio per colpire Maigret, che a Porquerolles si sente più che mai disorientato, a disagio: il Midi, del resto agisce su di lui come un narcotico – gli è già accaduto in Liberty Bar. Non ha nessuna voglia di procedere agli interrogatori. Preferirebbe «gironzolare per l’isola come uno sfaccendato», «starsene in piazza sotto il sole, a fumare la pipa guardando i giocatori di bocce […] gironzolare per il porto, guardare i pescatori che rammendavano le reti […] conoscere tutti i Galli e i Morin di cui gli aveva parlato Lechat». Gironzolare o starsene in piazza al sole per guardare, conoscere, sentire: «Sentiva qualcosa. Sentiva un mucchio di cose […] ma non avrebbe saputo dire in che modo, prima o poi, nella nebbia delle sue idee si sarebbe fatta chiarezza» (Il mio amico Maigret: 45, 56, 75). L’essenziale è assumere un atteggiamento ricettivo, abbandonarsi alle percezioni, fiutare, lasciarsi impregnare – e persino chiuso in una stanza d’albergo (perché gravemente ferito a una spalla) riesce a ricostruire l’ambiente che lo circonda : «Non aveva bisogno di fare troppi sforzi per immaginare la villa del dottore o la casa austera del procuratore. Proprio lui, che provava tanta voluttà nel fiutare le atmosfere!» (Il pazzo di Bergerac: 93). È la phase d’imprégnation (DUBOIS 2003a: XXXVIII). Quel che lo angoscia, semmai, all’inizio di un’inchiesta, è l’estraneità, che può assumere l’ovattata consistenza della nebbia di Ouistreham: «Eppure l’atmosfera non si può definire sinistra, è un’altra cosa, una vaga inquietudine, un’angoscia, un’oppressione, la sensazione di un mondo sconosciuto al quale si è estranei, e che continua a vivere di vita propria intorno a voi» (Il porto delle nebbie: 23). Familiarizzare, collocare i personaggi del dramma ciascuno al proprio posto, sentirsi a casa propria è il primo passo verso la soluzione dell’enigma: è la phase de songerie (DUBOIS 2003a: XXXVIII):

Al Quai des Orfèvres […] in momenti del genere dicevano di Maigret: «Ci siamo: il capo è caduto in trance» […] Per giorni interi, a volte per settimane, si barcamenava in un’inchiesta limitandosi a fare il minimo indispensabile […] con un’aria quasi distaccata, a volte del tutto indifferente […] Ma ecco che tutt’a un tratto, quando le difficoltà dell’impresa sembravano sul punto di scoraggiarlo, scattava la molla […] A quel punto, i personaggi del dramma non erano più ai suoi occhi entità astratte, o pedine, o marionette, ma erano diventati esseri umani. E Maigret si metteva nei loro panni, o almeno faceva di tutto per riuscirci […] Se un giorno, in determinate circostanze, un individuo aveva reagito in un determinato modo, perché non doveva essere in grado di pensarlo, viverlo e soffrirlo anche lui? […] Non era sufficiente stabilire: «Little John è fatto così e colà…». Bisognava sentirselo dentro. Diventare lui (Maigret a New York: 129-31).


Sa immedesimarsi, Maigret, dopo il déclic – persino in Aline Calas, abietta e ubriacona, ed è come un’improvvisa vertigine:

Maigret ebbe l’impressione che negli occhi di lei passasse un lampo, un’ironia appena percettibile. Si sbagliava? Eppure, gli pareva che nel suo linguaggio muto la donna gli stesse dicendo: «Perché continua a farmi domande, visto che ha capito tutto?». Anche lei capiva il commissario. Era come se fossero della stessa tempra, o, meglio, come se entrambi avessero la stessa esperienza della vita (Maigret e il corpo senza testa: 62).

Empatia, o «moment de transsubstantiation, ou de dévoration» (BAJOMEE 2003: 44). Empatia resa possibile dal fatto che Maigret è un uomo in equilibrio fra due mondi anche per un'altra ragione: in quanto funzionario appartiene ormai alla classe media che sogna una casetta in campagna, ma ha passato la maggior parte del suo tempo a contatto con «l’altra faccia del mondo, con gli emarginati, con gli scarti, spesso con i nemici della società organizzata» (Le memorie di Maigret: 134). Appartiene alla brava gente, ma conosce il linguaggio segreto degli altri. E questo misterioso sapere si paga con l’innocenza. Sa dunque diventare un altro, cade in trance (proprio come Simenon quando scrive un romanzo). Non meraviglia allora di trovarlo dietro il bancone di un bistrot di periferia – il bistrot di Albert, il «suo morto» –, con Chevrier che serve ai tavoli e la moglie di questi che scrive sulla lavagnetta il plat du jour. A tanto può spingersi la sua capacità di mettersi dans la peau des autres: a indossarne la casa e la vita come un abito:

Nell’armadio c’era una vestaglia di cotone felpato blu con i risvolti di seta artificiale, ma era troppo corta e stretta per lui. Anche le pantofole, ai piedi del letto, non erano della sua misura. Rimase in calzini, si avvolse in una coperta e si sistemò sulla poltrona con un cuscino sotto la testa […] Si andava abituando. Provava la casa come si prova un vestito nuovo, e il suo odore cominciava già a essergli familiare, un odore aspro e dolce insieme, che gli ricordava la campagna.
Salì in camera da letto, trovò un rasoio, della schiuma da barba, un pennello. Perché no, dopotutto? Albert doveva essere un tipo pulito e in buona salute (Il morto di Maigret: 73, 75).

Non meno sconcertante è la phase de résolution de l’enquête (ALAVOINE 1999: 20). In Liberty Bar Maigret dipana un’aggrovigliata matassa: è stata Jaja, la tenutaria del Liberty Bar – «la casa dove non si parlava mai del passato », estremo rifugio di chi ne ha viste di tutti i colori e aspira solo all’oblio –, a uccidere William Brown, l’australiano che non ne poteva più delle pecore e dell’Australia e voleva fare la bella vita. L’ha ucciso per gelosia, perché Brown aveva perso la testa per Sylvie. Sentiamo come Maigret racconta alla moglie l’epilogo della vicenda:

«Allora la vecchia si è resa conto di non contare più nulla e ha ucciso l’amante… Questo baccalà è veramente squisito…». «Continuo a non capire…». «Che cosa non capisci?». «Perché la vecchia non è stata arrestata. In fondo è stata lei a...» […] «La vecchia, che ha ucciso, morirà fra tre o quattro mesi, o cinque, o sei, con le gambe gonfie e i piedi in una tinozza» […] «E la giovane?». «Lei è ancora più disgraziata… Perché vuole bene alla vecchia come se fosse sua madre… E poi perché ama il suo magnaccia» (Liberty Bar: 137-38).

Jaja non è stata arrestata. Come non condividere lo stupore della signora Maigret? Lasciando il Liberty Bar, il commissario ha detto a Sylvie: «“Le dica che è stato tutto un brutto sogno, un incubo…”». Strana idea della giustizia. Maigret si comporta a volte «comme un détective privé […] Ou comme un chef d’entreprise, lorsqu’il règne sur sa petite équipe […] de façon très paternaliste. À ce moment-là il joue d’un statut hybride […] : une sorte d’entrepreneur privé dans une entreprise d’État» (ALAVOINE 1999 : 20-21, e si veda anche DUBOIS 2003a : XL). Come Simenon, d’altra parte, attribuisce alla vittimologia non meno importanza che alla criminologia. Quel che gli preme è capire le ragioni della vittima – e anche un’assassina può essere una vittima. Polizieschi eterodossi? Romanzi noirs anomali? Forse romans policiers psychologiques (BAJOMÉE 2003: 42), o punto di transito dal «roman policier comme problème à un roman policier qui se veut roman à part entière» (DUBOIS 2003a: XXXIX) – di certo memorabili gallerie di destini3 : nel corso degli anni i Maigret guadagnano in épaisseur romanesque, fino ad avvicinarsi ai romans-romans. Vorrei ricordarne almeno tre di destini, quelli di donne in fuga difficili da dimenticare: Arlette, la spogliarellista del Picratt’s, che ha lo sguardo ansioso di una bambina e la voce stanca di chi ha bevuto e fumato troppo – e a cui nessun uomo, neppure Lapointe, sa resistere (Maigret al Picratt’s); Aline Calas, abulica, indifferente come una sonnambula dietro il banco del suo buio bistrot, quasi immateriale, inafferrabile (Maigret e il corpo senza testa); e la chiusa, fiera, misteriosa Louise Laboine, la ragazza senza passato (Maigret e la giovane morta).

Se nelle prime diciannove inchieste Simenon – come ha dimostrato Jacques Dubois – mina ora l’una ora l’altra delle leggi che fondano il modello del récit d’énigme et d’enquête («a) il y a un crime et il y a un coupable; b) un détective est mandaté pour mener l’enquête; c) le détective est extérieur au drame; d) le détective conduit l’enquête; e) le détective reconnaît le coupable et le livre à la justice; f) le détective est lui-même innocent»), è nel Caso Saint-Fiacre che si addensano tutte le anomalie (DUBOIS 1992: 178, 182-83). Si rammenti che Maurice, figlio della defunta contessa, invita a cena, oltre a Maigret, il dottor Bouchardon, il parroco, Jean Métayer (segretario e amante in carica della contessa) e il suo avvocato, Gautier, l’intendente del castello, e suo figlio Émile, ex favorito della contessa. Il cadavere è al piano di sopra, e l’assassino è lì, fra di loro, nella solenne e lugubre sala da pranzo del castello. Benché a disagio, Maigret non batte ciglio. Ha misteriosamente abdicato al suo ruolo. Né interviene allorché il conte si scaglia contro Émile, l’assassino, lo colpisce a sangue e poi lo trascina davanti al cadavere della madre:

«Più in fretta!... In ginocchio!... E adesso chiedi perdono!...» […] Questa volta l’assassino era stato colpito non da un pugno, ma da un calcio in piena faccia […] Maigret socchiuse la porta. Maurice de Saint-Fiacre teneva Gautier per il collo e gli sbatteva la testa contro il pavimento. Vedendo il commissario, lasciò la presa, si asciugò la fronte e si alzò in piedi. «È fatta!...» disse ansimando. Il conte spinse Émile Gautier fuori dalla stanza e richiuse la porta. Si avviarono tutti insieme giù per le scale. Émile Gautier sanguinava […] Aveva un aspetto spaventoso: il viso era devastato, coperto di sangue; il naso gonfio e tumefatto, il labbro superiore spaccato (Il caso Saint-Fiacre: 139-41).

Maigret ha permesso al conte non solo di assumere le redini dell’inchiesta, ma di portare a termine la sua vendetta4. È chiaro che tende a sostituirsi alla giustizia, a incarnarla. E via via, soprattutto nelle inchieste del dopoguerra, mostrerà sempre meno fiducia nell’apparato giudiziario – nei processi, rituali immutabili dove l’individuo viene riassunto in poche frasi, annullato (e si veda ALAVOINE 1999: 29-30). Prendiamo il caso Meurant: Maigret scagionerà il mite corniciaio accusato di avere sgozzato Léontine Faverges e soffocato una bambina di quattro anni, ma non potrà poi impedirgli di fare quel che deve fare: saldare i conti con il destino che ha messo Ginette sulla sua strada (Maigret in Corte d’Assise). Prendiamo il bellissimo caso Josselin: non è stato l’industriale farmaceutico, con ogni probabilità, a uccidere l’eccentrica, disinvolta Christine, sua moglie. Ma l’ambiente nel quale si è introdotto in virtù di un temerario passage de la ligne l’ha condannato: è un usurpatore, aveva un’amante – e poco importa che l’«adorabile» Christine si circondasse di loschi protetti. Anche Coméliau, che come sappiamo non abbandona mai l’ottica del suo ceto, l’ha condannato. E Maigret assisterà impotente alla sua esecuzione (Maigret si confida). È questa la giustizia?

Il fatto è che l’uomo, senza saperlo, recita spesso una parte o vive la vita sbagliata – la vita di un altro. Non è colpa sua. Da buon vittimologo Maigret è convinto che non ci siano colpevoli, come Simenon: «Je ne crois pas qu’il y ait des coupables. L’homme est un être tellement mal armé pour la vie que parler de sa culpabilité, c’est en faire presque un surhomme» (LACASSIN 2002: 105). Vedere l’uomo nudo, comprenderne le ragioni, svelarne i segreti, questo gli preme:

Là où le policier à l’anglaise mettait en scène un groupe qui, à travers un détective relativement désincarné, partait à la recherche de l’individu singulier qui avait osé perturber l’ordre, le roman policier selon Simenon fait du «détective» un être compatissant qui, à travers un cas particulier, est confronté aux dysfonctionnements de la société ambiante (DUBOIS 2003a: XLI).

Il fatto è che prima o poi qualcosa accade e la vita si rivela per quello che è: un’intollerabile finzione, un atroce inganno, una rinuncia a sé. Gaston Meurant scopre d’improvviso – è Maigret a rivelarglielo – che Ginette non ha fatto che tradirlo, che è complice dell’assassino, e allora non può che andare fino in fondo. È la devianza, la trasognata determinazione di un uomo timido e scialbo che in molti anni non ha mai avuto un gesto di collera, un moto d’impazienza, e che ora è diventato un altro e corre verso la catastrofe: vende tutto, si precipita a Tolone dal fratello che è stato uno dei numerosi amanti di Ginette, ottiene da lui una Smith & Wesson e l’informazione che cercava, corre a Chelles dove incontrerà finalmente l’assassino. Seguiamolo, attraverso i rapporti che giungono a Maigret, il meneur de jeu, e che ossessivamente ribadiscono al lettore la perturbante metamorfosi di Meurant:

«Che aria ha?». «L’aria di uno che ha un’idea in testa e non pensa a nient’altro».
«Ha l’aria di un povero diavolo sfinito dalla stanchezza ma che non rinuncia a perseguire il suo scopo»
«Non legge i giornali, non fa niente, guarda davanti a sé con gli occhi socchiusi».
«Gaston Meurant, invece, ha l’aria di un uomo che sa finalmente dove sta andando».
«Maigret aveva operato a caldo, obbligando Meurant ad aprire gli occhi di colpo e a guardare finalmente in faccia la verità, e l’uomo che era uscito dal suo ufficio era ormai un altro, deciso a perseguire a qualunque costo l’idea che aveva in testa. Era andato avanti, senza sentire né la fame né la stanchezza, passando da un treno all’altro e non si sarebbe fermato prima di aver raggiunto il suo scopo».
«Gaston Meurant non era malese né in preda ad amok. E tuttavia non inseguiva forse un’idea fissa da ormai più di ventiquattr’ore e non sembrava forse capace di sbarazzarsi di tutto ciò che si fosse trovato sul suo cammino?» (Maigret in Corte d’Assise: 103, 108, 114, 115, 118,123).

Non c’è grande differenza, in fondo, rispetto ai romans de crise (su questa nozione si veda DUBOIS 2003a: XLIII-L), solo un diverso punto di vista: non quello, ab interiore, del personaggio, ma quello, esterno, di un commissario-demiurgo che si illude di aggiustare i destini:

A dire il vero, il mestiere che aveva sempre sognato non esisteva. Da ragazzo, al paese, aveva come l’impressione che un sacco di gente non fosse al posto suo, o prendesse una strada sbagliata unicamente perché non aveva le idee chiare. E immaginava un uomo di infinita saggezza, e soprattutto di infinita perspicacia, al tempo stesso medico e sacerdote, un uomo in grado di intuire con un’occhiata il destino delle persone […] Un uomo da consultare come si consulta un medico. Una specie di accomodatore di destini. E non solo perché intelligente […] ma perché capace di vivere la vita di chiunque, di mettersi nei panni di chiunque (La prima inchiesta di Maigret: 87).

Quando era giovane e fantasticava sul futuro, non si era forse immaginato un mestiere ideale che, malauguratamente, nella vita non esiste? Non l’aveva mai detto a nessuno e non aveva mai pronunciato quelle parole, nemmeno fra sé e sé, ma avrebbe voluto fare il «raddrizza-destini». D’altra parte, ed era una cosa piuttosto curiosa, nella sua carriera di poliziotto gli era capitato abbastanza spesso di rimettere in carreggiata persone che i casi della vita avevano indirizzato su una cattiva strada (Maigret e il corpo senza testa: 50).

Per questo Simenon ha creato Maigret: per dar corpo a un antico sogno – come ci rivela un’intervista rilasciata a Médecine et hygiène –, per illudersi che possa davvero esistere un raccomodeur de destinées:

Je me disais: pourquoi n’existe-t-il pas une sorte de médecin qui soit en même temps médecin du corps et médecin de l’intelligence […]? C’était presque de la médecine psychosomatique que je formulais. C’était 1917, et c’est dans cet esprit-là que j’ai créé le personnage de Maigret. Car c’est ce que fait Maigret, et c’est pourquoi il était nécessaire que Maigret ait fait deux ou trois années de médecine, car il fallait qu’il y ait tout de même une petite part d’esprit médical en lui. Maigret est pour moi un raccomodeur de destinées. C’était l’équivalent des types qui passent dans la rue pour réparer les chaises ou la vaisselle (BERTRAND 1988: 207).

Bibliografia

1. Opere di Georges Simenon

Il caso Saint-Fiacre = L’Affaire Saint-Fiacre, Paris, Fayard, 1932; trad. it. di G. Pinotti, Milano, Adelphi, 1996.
Il cavallante della «Providence» = Le Charretier de la «Providence», Paris, Fayard, 1931; trad. it. di E. Muratori, Milano, Adelphi, 1997.
Il defunto signor Gallet = Monsieur Gallet, décédé, Paris, Fayard, 1931; trad. it. di E. Klersy Imberciadori, Milano, Adelphi, 1994.
L’impiccato di Saint-Pholien = Le Pendu de Saint-Pholien, Paris, Fayard, 1931; trad. it. di G. Luzzani, Milano, Adelphi, 1993.
Liberty Bar = Liberty-Bar, Paris, Fayard 1932; trad. it. di I. Sassi, Milano, Adelphi, 1997.
Maigret al Picratt’s = Maigret au Picratt’s, Paris, Presses de la Cité, 1951; trad. it. di G. Minghini, Milano, Adelphi, 2001.
Maigret a New York = Maigret à New York, Paris, Presses de la Cité, 1947; trad. it. di E. Bas, Milano, Adelphi, 2000.
Maigret e il corpo senza testa = Maigret et le corps sans tête, Paris, Presses de la Cité, 1955; trad. it. di M. Belardetti, Milano, Adelphi, 2005.
Maigret e la giovane morta = Maigret et la jeune morte, Paris, Presses de la Cité, 1954; trad. it. di L. Frausin Guarino, Milano, Adelphi, 2005.
Maigret e l’uomo della panchina = Maigret et l’homme du banc, Paris, Presses de la Cité, 1953; trad. it. di L. Incerti Caselli, Milano, Adelphi, 2004.
Maigret in Corte d’Assise = Maigret aux assises, Paris, Presses de la Cité, 1960; trad. it. di L. Frausin Guarino, Milano, Adelphi, 2006.
Maigret si confida = Une confidence de Maigret, Paris, Presses de la Cité, 1959; trad. it. di M. Belardetti, Milano, Adelphi, 2007.
Le memorie di Maigret = Les Mémoires de Maigret, Paris, Presses de la Cité, 1951; trad. it. di M. Bevilacqua, Milano, Adelphi, 2002.
Il mio amico Maigret = Mon ami Maigret, Paris, Presses de la Cité, 1949; trad. it. di F. Salvatorelli, Milano Adelphi, 1999.
Il morto di Maigret = Maigret et son mort, Paris, Presses de la Cité, 1948; trad. it. di I. Sassi, Milano, Adelphi, 2000.
Pietr il Lettone = Pietr le Letton, Paris, Fayard, 1931; trad. it. di Y. Mélaouah, Milano, Adelphi, 1993.
Il pazzo di Bergerac = Le Fou de Bergerac, Paris, Fayard, 1932; trad. it. di L. Frausin Guarino, Milano, Adelphi, 1995.
Il porto delle nebbie = Le Port des brumes, Paris, Fayard, 1932; trad. it. di F. Ascari, Milano, Adelphi, 1994.
La prima inchiesta di Maigret = La Première Enquête de Maigret, Paris, Presses de la Cité, 1949; trad. it. di A. Catania, Milano, Adelphi, 2001.
I sotterranei del Majestic = Les Caves du Majestic, Paris, Gallimard, 1942; trad. it. di E. Vicari Fabris, Milano, Adelphi, 1998.
Le vacanze di Maigret = Les Vacances de Maigret, Paris, Presses de la Cité, 1948 ; trad. it. di L. Frausin Guarino, Milano, Adelphi, 1999.
Segnalo che tutte le traduzioni adelphiane sono state condotte sul testo fissato in G. Simenon, Oeuvre romanesque, 25 voll., Paris, Presses de la Cité, 1992 (ma Omnibus ha avviato nel febbraio di quest’anno la pubblicazione di un «Tout Maigret» in 10 voll., di cui è responsabile Michel Carly: sono già apparsi i primi 6 e gli ultimi 4 sono previsti entro il febbraio 2008).

2. Contributi critici e repertori

B. ALAVOINE, Les Enquêtes de Maigret de Georges Simenon. Lecture des textes, Amiens, Encrage, 1999.
D. BAJOMÉE, Simenon. Une légende du XXe siècle, Paris, La Renaissance du Livre, 2003.
A. BERTRAND, Georges Simenon, Lyon, La Manufacture, 1988.
M. CARLY, Maigret, traversées de Paris. Les 120 lieux parisiens du commissaire, Paris, Omnibus, 2003.
J. DUBOIS, «L’Utopie de Maigret», in ID., Le Roman policier ou la modernité, Paris, Nathan, 1992, pp. 171-88.
J. DUBOIS, «Maigret en images», in Simenon, l’homme, l’univers, la création, Bruxelles, Éditions Complexe, 1993, pp. 79-93.
J. DUBOIS, «Introduction», in G. Simenon, Romans, édition établie par J. Dubois avec B. Denis, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), 2003, t. I, pp. IX-LXXI = DUBOIS 2003a.
J. DUBOIS, «L’écriture en question», Magazine littéraire, 417, février 2003, pp. 64-66 = DUBOIS 2003b.
C. GAUTEUR, D’après Simenon. Simenon & le cinéma, Paris, Omnibus, 2001 (ma merita di essere sfogliato anche il bellissimo S. TOUBIANA, M. SCHEPENS, Simenon Cinéma, Paris, Textuel, 2002, che raccoglie 144 affiches di film tratti da romanzi e novelle di Simenon).
F. LACASSIN, Conversations avec Simenon, Monaco, Éditions du Rocher, 2002.
M. LEMOINE, Paris chez Simenon, Amiens, Encrage, 2000.
C. MENGUY, De Georges Sim à Simenon. Bibliographie, Paris, Omnibus, 2004.
Segnalo infine due strumenti insostituibili per chiunque intenda, anche in relazione alla stesura dei Maigret, attraversare la biografia di Simenon: P. ASSOULINE, Simenon. Biographie, Paris, Julliard, 1992, e J.-B. BARONIAN, M. SCHEPENS, Passion Simenon. L’Homme à romans, Paris, Textuel, 2002.


Notes

↑ 1Nel 1993 Adelphi ha dato avvio alla pubblicazione, a cura di Ena Marchi e mia, delle «Inchieste di Maigret»: si tratta di nuove traduzioni, che escono al ritmo di quattro all’anno. A tutt’oggi (luglio 2007), ne sono apparse 55 su 75: un numero cospicuo, che autorizza questo periplo intorno alla figura di Maigret, frutto di un lungo lavoro sui testi. Lavoro meno semplice di quel che si potrebbe pensare, non fosse che per le ragioni lucidamente indicate da Jacques Dubois: Simenon impiega «une langue neutralisée que l’on trouve en particulier dans les abondants dialogues de ses romans (hommes du peuple, clochards, mauvais garçons y parlent “comme tout le monde”, c’est-à-dire comme personne)» (DUBOIS 2003b: 65; e sullo stile di Simenon si veda anche DUBOIS 2003a : LIX-LXIII).

↑ 2Le copertine del periodo Fayard costituiscono la sezione «Expo» del sito adelphiano www.leinchiestedimaigret.it (cliccare, nella home page, «Tabac des Vosges»). Seguiranno il periodo Gallimard (1942-1944) e il periodo Presses de la Cité (1947-1972); cfr. MENGUY 2004.

↑ 3«Maigret figure alors une sorte de pont jeté entre le roman d’investigation ‘scientifique’ et les thrillers plus sombres, amoraux, brutaux et cyniques qu’inaugurera la Série noire en 1945, chez Gallimard; que l’on retrouvera dans le saisissant Pas d’orchidées pour Miss Blandish de James Hadley Chase, chez Japrisot [...] ou chez Jean-Patrick Manchette; dans les récits nihilistes de Didier Daeninckx, dans les fausses enquêtes brutales et gauloises de San-Antonio» (BAJOMEE 2003: 42).

↑ 4Non è un caso che nella versione cinematografica di Jean Delannoy (1959) Jean Gabin, che interpreta il ruolo di Maigret, assuma le redini della situazione e smascheri il colpevole; sui film tratti dai Maigret e più in generale sui rapporti fra Simenon e il cinema, si veda GAUTEUR 2001.

Pour citer cet article :

Giorgio PINOTTI, Il Commissario che voleva aggiustare i destini, Constellations francophones, Publifarum, n. 7, pubblicato il 20/12/2007, consultato il 18/04/2024, url: http://www.farum.it/publifarum/ezine_articles.php?id=57

 

Dipartimento di Lingue e Culture Moderne - Università di Genova
Open Access Journal - ISSN électronique 1824-7482

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