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Tradurre Yasmina Khadra

Yasmina MELAOUAH


Più di ogni altro autore maghrebino, Khadra appare avvolto in un fitto gioco di ombre, incarnazione delle contraddizioni, ma anche delle loro felici sintesi, che fanno la ricchezza delle letterature francofone.

Rifratto in una spirale di identità molteplici, uomo e scrittore della metamorfosi, il colonnello dell’esercito algerino Mohamed Moulessehoul ha avuto accesso alla letteratura attraverso una sorta di transizione identitaria, spogliato di sé e condotto alla parola, significativamente, da un doppio femminile, la fantomatica Yasmina Khadra che negli anni novanta irrompeva nel panorama culturale algerino con alcuni importanti romanzi noir.

Uscito dall’esercito dopo trentasei anni di vita militare nel 2000, l’ormai ex colonnello poteva finalmente venire allo scoperto e liquidare l’identità fittizia della scrittrice Khadra senza tuttavia abbandonarne il nome, ma appropriandosene, in un ultimo, ironico ed esplicito mascheramento.

Questo gioco di avatar – il militare, la donna, la scrittrice bersaglio dei fondamentalisti, lo scrittore, l’ex militare – racconta emblematicamente uno degli aspetti più significativi delle francofonie e più in generale delle letterature postcoloniali, nelle quali lo scrittore è costretto a fare i conti, sin dalla scelta della lingua, con una immagine di sé frammentaria, caleidoscopica, impossibile da ricondurre a unità.
Proprio in ciò risiede la dimensione meticcia di tali letterature, espressioni di una cultura del confine molto più che della periferia, lacerate ma per ciò stesso ricche di due o più culture, di due o più lingue, di due o più mondi. Da tale pluralità di voci, da tale identità molteplice può scaturire il racconto più fedele della cifra della contemporaneità. Le letterature del confine possono infatti sintetizzare e anticipare nel loro stesso carattere spesso contaminato (nonché nella feconda contaminazione che impongono alle culture delle ex madrepatrie) l’inevitabile métissage verso cui si muove l’orizzonte del nostro mondo.

La lingua, bottino di guerra

Primo elemento di lacerazione, comune a quasi tutte le letterature francofone in contesti di bilinguismo, ma particolarmente acuto nei contesti arabofoni, la “questione della lingua” domina l’orizzonte della letteratura algerina contemporanea, nutre le sue origini, ne plasma inesorabilmente l’immaginario, intrecciandosi alle riflessioni sull’identità.
Pesa, sulla scelta del francese come lingua di scrittura da parte di molti narratori sin dalle soglie dell’Indipendenza, la consapevolezza che, nonostante le politiche di arabizzazione avviate dal governo algerino, il francese rimane la lingua di accesso alla cultura, lo strumento più acuminato per una emancipazione intellettuale che passa anche attraverso il dialogo con i lettori francofoni dell’altra sponda del Mediterraneo, quell’Altro con il quale la narrativa algerina contemporanea intreccia un rapporto fecondamente ambivalente.

Su tale questione si sono espressi molti intellettuali algerini, non ultima Assia Djébar, cui si devono pagine illuminanti sulle complesse relazioni tra arabo, francese e berbero nel proprio percorso di scrittura. Pregnante, e lapidaria, resta tuttavia la motivazione di Kateb Yacine: “Cette langue est pour moi un butin de guerre. La résistance l’a dérobée aux colonisateurs et, aprés s’en être emparée, l’a retournée contre eux”.

Questa orgogliosa appropriazione di un bottino di guerra per ritorcerlo contro gli ex colonizzatori segna una stagione della narrativa algerina, descrive l’iconoclastia verbale, la potenza trasgressiva della lingua letteraria di un autore come Rachid Boudjédra.
Ma si tratta forse di un posizione radicale oggi superata in una sintesi di cui Khadra rappresenta uno degli esponenti più emblematici. Chiusa la stagione dei bottini di guerra, degli stupri inflitti alla lingua, si delinea dai primi anni Novanta in Algeria una produzione letteraria che, alle sfide poste anche dal nuovo sanguinoso scenario di terrorismo fondamentalista, risponde con la rivendicazione di una identità biculturale espressa attraverso una lingua condivisa in cui abitano in relativa armonia infinite polarità.

Anche la scelta di un genere relativamente nuovo per il panorama della letteratura algerina quale il noir esprime un rapporto inedito tanto con i modelli culturali esistenti quanto con il pubblico dei lettori, quanto con la funzione attribuita alla letteratura. Il romanzo noir, con cui Khadra esordisce, si presta particolarmente a raccontare il disordine del mondo, a esplorarne le ferite, a gettare luce sul male conferendo all’indagine del commissario il valore di una quête metafisica, l’ostinata ricerca di un ordine e nel contempo la forza di una denuncia.

Nel romanzo irrompe la realtà, con le sue voci molteplici, le sue luci e le sue ombre, le sue miserie e le sue grandezze. Irrompe l’Algeri corrotta della mafia politico-finanziaria e la malinconica tenacia degli uomini di buona volontà, irrompono le voci discordanti di un mondo che ha ormai ben poco in comune con quello descritto dai grandi padri della letteratura algerina negli anni Cinquanta e Sessanta.

Il caso Yasmina Khadra

Yasmina Khadra esordisce come “autrice” di polizieschi negli anni ‘90. La trilogia del commissario Llob (Morituri, 1997; L’Automne des chimères, 1998; Double Blanc, 1998) riscuote un grande successo tanto in Algeria quanto in Francia e fa di Khadra un caso editoriale oltre che un caso tout court: l’anonimato dietro cui si cela la sedicente scrittrice Yasmina Khadra amplifica infatti a dismisura la curiosità dei media e della critica.

Come nei migliori modelli del genere, protagonista è un commissario (Llob) disilluso e puro di cuore di fronte a una città corrotta e fatiscente, secondo la mitologia urbana che caratterizza il genere.

Nel 1999 Yasmina Khadra pubblica À quoi rêvent les loups e nel 2001, in una intervista a “Le Monde des livres” dichiara la propria identità, motivando la scelta dello pseudonimo e dell’identità fittizia con il proprio ruolo di alto ufficiale dell’esercito algerino, incompatibile con l’attività di scrittore. Alle polemiche che seguono la rivelazione, legate soprattutto alle ombre che pesano sull’esercito algerino accusato di torture e del coinvolgimento in molti massacri attribuiti agli islamici (SOUAIDIA 2001) Khadra risponde con due testi a carattere autobiografico in cui, oltre a ripercorrere la nascita della propria vocazione (L’écrivain 2001), ribatte alle accuse e alle ombre che pesano sui militari algerini (L’imposture des mots 2002).

À quoi rêvent les loups

Romanzo importante, profondamente radicato nella situazione algerina a cavallo tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90 e tragicamente attuale nell’agghiacciante linearità della traiettoria di un terrorista islamico, À quoi rêvent les loups è il romanzo di formazione di un fanatico fondamentalista. Rigorosamente contestualizzato, dipinge la primissima stagione del terrorismo, dopo l’annullamento, nel gennaio ‘92 del secondo turno delle elezioni vinte al primo turno dal partito di matrice islamica Front Islamique du Salut.
Protagonista è Nafa Walid, un giovane di bell’aspetto e di belle speranze che, come molti suoi coetanei ai quattro angoli del mondo, sogna di sfondare nel firmamento hollywoodiano, ma è costretto a sopravvivere con piccoli lavori, miseri espedienti, subendo ogni giorno le umiliazioni di chi si vede irrimediabilemte precluso non solo l’accesso ai privilegi, ma la dignità stessa.

Corruzione, soprusi, ingiustizie, il tradimento degli ideali democratici nati dalla lotta per l’indipendenza nutrono la sua rivolta che trova un senso nelle limpide parole d’ordine dei leader islamici. Nella quiete fresca della moschea, al riparo dai tumulti, dal sudiciume fisico e morale della città, Nafa trova un’oasi di giustizia, e un destino.

Con la sua storia esemplare Khadra racconta una stagione dell’Algeria ma anche, con tragica preveggenza, una parabola che negli anni successivi abbiamo letto troppo spesso nelle cronache dei giornali, nelle scialbe e terrificanti biografie dei “martiri”.

Perché l’impatto di questo mondo possa irrompere sulla pagina in tutta la sua forza, Khadra compie una sintesi di voci e di registri diversi, in un raffinato gioco di influenze incrociate, intertestualità, plurilinguismo. Mai una lingua apollinea e misurata, ma neppure il compiacimento di una colloquialità di maniera nella quale talora l’autore indulgeva nella trilogia noir. In questo romanzo definitivamente maturo, Khadra affina tutte le proprie risorse, modula la propria voce moltiplicandola nel coro immenso di voci discordanti che si leva dalla splendida, maledetta Algeri. Slogan islamici e birignao altoborghese, versetti del Corano e turpiloquio giovanile, poesie e imprecazioni, registri di ogni ceto e di ogni professione, francese e arabo, classico e dialettale, in una polifonia talvolta disturbante, ma sempre padroneggiata dalla sicura voce di fondo dell’autore. E’ proprio questo fecondo disordine, secondo Antoine Berman, la vera cifra della prosa letteraria:

La prose littéraire se caractérise en premier lieu par le fait qu’elle capte, condense, entremêle tout l’espace polylangagier d’une communauté. Elle mobilise et active la totalité des “langues” coexistant dans une langue. (…) Les grandes œuvres en prose se caractérisent par un certain “mal écrire”, un certain “non contrôle” de leur écriture. (BERMAN 1999 : 50)

Di fronte a tale prezioso scarto dalla norma linguistica, di fronte a tale luminoso disordine della prosa letteraria, Berman auspica che il traduttore non assuma un atteggiamento normalizzatore né tantomeno si ispiri al deprecabile quanto generico “bello stile” che suscita l’indignazione di Milan Kundera nei suoi Testamenti traditi.

Per un traduttore, l’autorità suprema dovrebbe essere lo stile personale dell’autore. La maggior parte dei traduttori obbedisce invece a un’altra autorità: quella del bel francese (del bel tedesco, del bell’inglese ecc.) (del bell’italiano ndr) che sono poi il francese (il tedesco, l’inglese ecc) (l’italiano ndr) che si imparano a scuola (…) ogni autore di qualche talento trasgredisce il “bello stile” e proprio in questa trasgressione sta l’originalità (e, quindi, la ragion d’essere) della sua arte. Il primo sforzo del traduttore dovrebbe essere quello di capire questa trasgressione. (KUNDERA 1994: 110)

La lingua letteraria è sempre una lingua dentro la lingua, un gioco trasgressivo in cui, nello scarto dalla norma, la parola si reinventa per reinventare il mondo o per gettare su di esso, da un’angolazione inedita, uno sguardo aurorale. Ogni punto di vista narrativo offre una prospettiva nuova sul mondo che passa anzitutto attraverso la trasgressione cui allude Kundera.

Nel caso degli autori francofoni siamo di fronte a una trasgressione al quadrato poiché lo scrittore francofono è un étranger al quadrato, è già un “uomo tradotto”, secondo la felice definizione data da Salman Rushdie dello scrittore postcoloniale.

Tradurre Khadra

Accogliere lo straniero, evitare un approccio etnocentrico, assumersi e fare assumere al lettore la nobile fatica dello straniamento, percorrendo la distanza che ci separa dall’Altro nella disposizione d’animo di chi accetta di ricevere da questo viaggio talora arduo i doni preziosi della conoscenza e della scoperta: le affascinanti suggestioni teoriche di Antoine Berman hanno, inaspettatamente, concretissime ricadute pratiche. In alcune pagine di grande acume critico, l’autore espone a contrario la sua impeccabile poetica della traduzione, enumerando le principali “tendances déformantes, qui forment un tout systématique, dont la fin est la destruction, non moins systématique, de la lettre des originaux, au seul profit du “sens” et de la “belle forme” (BERMAN 1999: 52).

Tra queste tendances la più diffusa, da cui le altre discendono come corollario, è la rationalisation, che in termini di linguaggio editoriale diviene la ben nota, dilagante, nefasta normalizzazione : frasi disciplinate, punteggiatura standardizzata, abuso di collocazioni e luoghi comuni linguistici, “addomesticamento culturale” (OSIMO 2001: 83) per rendere aprioristicamente “scorrevole” e “leggibile” qualunque prosa letteraria in un deliberato disegno di neutralizzazione di ogni possibile choc da parte del lettore/consumatore/acquirente.

Per illustrare il mio approccio traduttivo, mi soffermerò brevemente su alcuni elementi di interesse del romanzo di Kahdra e sul loro trattamento in sede di traduzione: la coesistenza dei registri, il ruolo della città e la dimensione culturale.

Registri

Il romanzo di Khadra è caratterizzato da una notevole varietà di registri lessicali che contribuiscono a creare quella polifonia che è forse la vera cifra stilistica del romanzo. Lo statuto del francese come lingua di cultura, accanto all’arabo dialettale della comunicazione quotidiana, delle relazioni amicali e affettive si riflette, per Khadra come per molti autori francofoni, nella scelta di un lessico ricercato, ai limiti del preziosismo, in metafore ardite, in costruzioni sintattiche non di rado involute.

Bruscamente, questa tonalità che potremmo definire “pomposamente letteraria” è interrotta dall’irruzione di secchi gergalismi, di espressioni colloquiali che paiono evidente retaggio della stagione dei noir.

Allo stesso modo, sul piano della sintassi, si rileva una alternanza di periodi complessi e di periodi decisamente più brevi, concisi, di una forza lapidaria. Si veda, al riguardo, l’incipit, con il brusco passaggio di tono dal primo al secondo paragrafo.

Pourquoi l’archange Gabriel n’a-t-il pas retenu mon bras lorsque je m’apprêtais à trancher la gorge de ce bébé brûlant de fièvre? Pourtant, de toutes mes forces, j’a cru que jamais ma lame n’oserait effleurer ce cou frêle, à peine plus gros qu’un poignet de mioche. La pluie menaçait d’engloutir la terre entière, ce soir-là. Le ciel fulminait. Longtemps, j’ai attendu que le tonnerre détourne ma main, qu’un éclair me délivre des ténèbres qui me retenaient captif de leurs perditions, moi qui était persuadé être venu au monde pour plaire et séduire, qui rêvait de conquérir les cœurs par la seule grâce de mon talent.

Il est 6 heures du matin, et le jour n’a pas assez de cran pour s’aventurer dans les rues. Depuis qu’Alger a renié ses saints, le soleil préfère se tenir au large de la mer, à attendre que la nuit ait fini de remballer ses échafauds. (KHADRA 1999: 11)

Il riferimento biblico all’arcangelo Gabriele che ferma la mano ad Abramo in procinto di sacrificare Isacco colloca il testo nel tempo del mito, mentre il preciso riferimento temporale piomba la vicenda, e il lettore, nel crudo orrore del presente e della Storia.
Nella traduzione abbiamo conservato la lunghezza e il ritmo delle frasi, abbiamo riprodotto esattamente le stesse immagini, anche quando parevano sbandare verso una pericolosa genericità come in quelle ambigue “ténèbres qui me retenaient captif de leurs perditions” [mio corsivo].

Perché l’arcangelo Gabriele non mi ha fermato il braccio quando mi accingevo a tagliare la gola a quel neonato che scottava di febbre? Eppure, con tutte le mie forze, ho creduto che mai la mia lama avrebbe osato sfiorare quel collo gracile, appena più grosso del polso di un bambino. Quella sera, la pioggia minacciava di sommergere la terra intera. Il cielo tempestava. A lungo ho aspettato che il tuono mi deviasse la mano, che un lampo mi liberasse dalle tenebre che mi tenevano prigioniero delle loro perdizioni, io che ero convinto di essere venuto al mondo per piacere e sedurre, che sognavo di conquistare i cuori con la sola grazia del mio talento.

Sono le sei del mattino, e il giorno non ha abbastanza fegato per avventurarsi in strada. Da quando Algeri ha rinnegato i propri santi, il sole preferisce starsene al largo, in mare, ad aspettare che la notte abbia finito di smontare i suoi patiboli. (KHADRA 2001: 11)

Altrettanto vistoso, il contrasto tra la laconicità tagliente di alcuni dialoghi – ancora l’eredità del noir (KHADRA 2001: 80) – e il respiro più piano di talune descrizioni (KHADRA 2001: 82), o il tono misurato e solenne delle parole dell’imam (KHADRA 2001: 84-85).

La città

Sullo sfondo della parabola umana e religiosa di Nafa Walid si delinea, accuratamente tratteggiata, la realtà socioculturale algerina. Con sguardo acuto e tuttavia partecipe, Khadra indaga la realtà del proprio paese raccontandone le storture sociali, la corruzione, le enormi disparità tra il popolo e il ceto facoltoso che gravita intorno agli esponenti del potere. Sono le ferite di questo tessuto sociale, suggerisce l’autore, la necrotizzazione di un potere incapace di assicurare giustizia e dignità ai ceti meno favoriti a determinare il terreno di coltura dell’ondata integralista.

In tale quadro la città di Algeri assurge a metafora della situazione algerina e la lacerazione sociale del paese ha un corrispettivo topografico nel contrasto tra il Grand-Alger – quartieri residenziali di sontuose ville – e la Casbah, quartiere povero per eccellenza dai cui vicoli dilaga l’ondata dell’integralismo. Algeri è lacerata come è lacerato il paese, la sua storia, la sua popolazione, stretti tra un potere corrotto e la sanguinosa marea integralista.

Linguaggio figurato, metafore ardite, ricca aggettivazione descrivono la capitale sontuosa e corrotta, enorme mostro grandioso e fatiscente. Algeri è una creatura vivente, animata, una madre incestuosa che partorisce mostri fanatici, una prostituta lasciva. Prostituta e madre sono i due poli generatori delle immagini della città.

Devant nous, loin derrière les éclaboussures du jour, les premières stèles de l’Olympe algérois se mirent à déployer leur faste à la manière d’une odalisque se dénudant aux pieds d’un sultan. (KHADRA 1999 : 23, mio corsivo)

Une fois rassasié d’horizons diaprés, je revenais couver de mon silence la Casbah séculaire accroupie plus bas. Avec son piémont en guise d’essoreuse et ses fatras de mansardes pareilles à des paquets de linge, elle me rappelait ma mère, sur la berge de l’oued, s’ingéniant à donner un éclat soyeux à de vieilles guenilles. (KHADRA 1999 :86 , mio corsivo)

Le due immagini, Algeri prostituta, Algeri madre, si fondono in una descrizione in cui Khadra dà fondo alla propria verve metaforica in una magniloquenza compiaciutamente decadente.

Alger était malade.
Pataugeant dans ses crottes purulentes, elle dégueulait, déféquait sans arrêt. Ses foules dysentériques déferlaient des bas-quartiers dans des éruptions tumultueuses. (…).
Alger s’agrippait à ses collines, la robe retroussée par-dessus son vagin éclaté, beuglait les diatribes diffusées par les minarets, rotait, grognait, barbouillée de partout, pantelante, les yeux chavirés, la gueule baveuse tandis que le peuple retenait son souffle devant le monstre incestueux qu’elle était en train de mettre au monde.
Alger accouchait. Dans la douleur et la nausée. (KHADRA 1999 : 91)

Immagini arditissime, non sempre felici, ma che la traduzione vuole restituire nella loro vividezza anche sgradevole giacché questo torbido fascino malato era la cifra che Khadra voleva dare alla propria città, personificata in un enorme mostro dai tratti femminili intento a partorire creature raccapriccianti. L’elemento dominante del brano è senz’altro l’uso di un lessico antropomorfo e proprio da questo elemento si è organizzata la strategia traduttiva.

Algeri era malata.
Sguazzava nella sua merda purulenta, vomitava, defecava senza sosta. Le sue folle dissenteriche dilagavano dai quartieri poveri in eruzioni tumultuose. (…)
Algeri si aggrappava alle proprie colline, con il vestito alzato sulla vagina dilaniata, sbraitava le diatribe diffuse dai minareti, ruttava, grugniva, tutta imbrattata, ansante, con gli occhi stravolti, la bocca piena di bava mentre il popolo tratteneva il fiato davanti al mostro incestuoso che lei stava mettendo al mondo.
Algeri partoriva. Nel dolore e nella nausea. (KHADRA 2001 : 85)

La dimensione culturale

Tradurre significa misurarsi non solo con un’altra lingua ma con un’altra cultura, rapportarsi a un’alterità che è in primo luogo alterità culturale. Ciò è tanto più vero nel caso delle letterature francofone in cui il traduttore si trova di fronte a una sorta di alterità al quadrato. Tale dimensione culturale comprende, nel nostro caso, il lessico legato alla situazione politica dell’Algeria, alle sue tradizioni religiose e culturali, ai suoi usi e costumi, ai movimenti islamici e persino ai codici vestimentari che tanta importanza hanno nell’ideologia islamica.

Il traduttore deve pertanto possedere una profonda “coscienza metaculturale” (OSIMO 2004: 43) che gli consenta di non annettere al proprio orizzonte culturale elementi irrimediabilmente altri. Evitare la naturalizzazione significa assumersi appieno il proprio ruolo di mediatore, di creatura del confine capace di accogliere lo Straniero nella propria dimora, per riprendere ancora una volta la bella immagine di Antoine Berman.
Quando Khadra scrive “lorsque l’imam Younes lui proposa de transformer sa gargote en un ‘Resto du cœur’ version Fis, Omar se déclara extrêmement honoré” (KHADRA 1999: 105), le difficoltà poste al traduttore non sono affatto di ordine linguistico, bensì di ordine culturale, trovandosi egli dinnanzi alla necessità di una sorta di triangolazione fra l’orizzonte culturale algerino (le gargotes, l’imam, il FIS), l’orizzonte culturale francese (i “Restos du cœur”) e l’orizzonte culturale della cultura ricevente (nel nostro caso la cultura italiana) dove non sono presenti né il FIS né i "Restos du cœur", senza dimenticare la questione della traslitterazione, giacché gli stessi nomi arabi dei personaggi sono qui traslitterati secondo le regole fonetiche del francese e vanno quindi a loro volta traslitterati secondo le regole fonetiche della lingua ricevente.
Dinnanzi alla forte presenza di riferimenti culturali il traduttore può decidere via via di compiere la mediazione all’interno del testo – per esempio con una resa generalizzante: abbiamo tradotto “Restos du cœur” con “mensa dei poveri” – omettendo il riferimento specifico all’organizzazione fondata da Coluche in Francia nel 1985 allo scopo di fornire pasti gratuiti a persone in stato di necessità – oppure di ricorrere a un apparato metatestuale, in forma di nota a piè di pagina o di glossario, solitamente in fondo al testo – la sigla FIS è stata svolta e spiegata nel glossario che abbiamo approntato per far fronte alla grande quantità di realia e di lessico legato alla realtà sociopolitica dell’Algeria.

La traduzione italiana risulta quindi la seguente: “quando l’imam Yunes gli propose di trasformare la sua bettola in una mensa per i poveri in versione FIS, Omar si dichiarò molto onorato.”

Bibliografia

A. BERMAN, La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, Paris, Seuil, 1999.
B. OSIMO, Propedeutica della traduzione, Milano, Hoepli, 2001.
B. OSIMO, Manuale del traduttore, Milano, Hoepli, 2004.
M. KUNDERA, I testamenti traditi, Milano, Adelphi, 1994 (trad. it. M. Daverio).
H. SOUAIDIA, La sale guerre, Paris, La Découverte, 2000.
Y. KHADRA, À quoi rêvent les loups, Paris, Julliard, 1999.
Y. KHADRA, Cosa sognano i lupi, Milano, Feltrinelli, 2001 (trad. it. Y. Melaouah).


Pour citer cet article :

Yasmina MELAOUAH, Tradurre Yasmina Khadra, Constellations francophones, Publifarum, n. 7, pubblicato il 20/12/2007, consultato il 19/04/2024, url: http://www.farum.it/publifarum/ezine_articles.php?id=46

 

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